Trovare nuove forme di comunicazione nell’industria cinematografica odierna è un’impresa pressoché impossibile: tutto è già stato detto, tutto è già stato fatto.
O almeno così pare. Perché questo non è un problema che sembra affliggere Yorgos Lanthimos, regista greco classe 1973 già autore di film acclamati dalla critica come Kyodontas, Alps e The Lobster. Con la sua ultima fatica The Killing of a Sacreed Deer, cosceneggiato come gli altri assieme al fido Efthymis Filippou, Lanthimos si ritaglia definifivamente un posto d’onore tra gli autori odierni più interessanti in circolazione.
Il film esplora un tema tanto semplice quanto delicato: fino a che punto un medico può sentirsi colpevole per la morte di un suo paziente? Ma questo è solo il punto di partenza. Lanthimos costruisce, sperimenta, osa, inserendo un gran numero di elementi che vanno ad indagare le dinamiche familiari della società moderna.
Come i precedenti titoli del regista, anche quest’ultimo è di difficile catalogazione.
Per quanto riguarda il genere si è letteralmente su territorio vergine; tuttavia lo si può approssimativamente inquadrare come un horror psicologico con pesanti contaminazioni dalla commedia grottesca. Ma, più di ogni altra, la definizione che il film reclama a gran voce è quella di favola nera.
Non è assolutamente facile donare connotazioni oniriche ad un contesto moderno, ma Lanthimos riconferma la sua abilità nel creare mondi a parte con una loro dinamica colloquiale, che si riduce a cruda esposizione di interiorità umana. I personaggi potrebbero apparire completamente freddi e privi di tridimensionalità, ma è solo il mezzo espressivo ideato dal regista; in realtà essi possiedono una loro dimensione emozionale, ma questa appartiene agli schemi del surrealismo.
I dialoghi presentano un andamento ritmato, scandito, pacato, e si concentrano su dettagli innaturalmente esplicativi. Ripetuti attraverso tutto il film in maniera ridondante, quasi ossessiva, apparentemente non sembrano avere alcun nesso con la linea narrativa.
Ma l’intento subliminale del regista è fin troppo evidente. Arriva persino a dircelo direttamente tramite il personaggio di Martin in una scena cardine: “Capisci? E’ metaforico. Il mio esempio… è una metafora. Intendo, è… simbolico”.
I personaggi esprimono le proprie considerazioni e preferenze senza filtri e senza suscitare reazioni di sgomento negli interlocutori, i quali replicano invece con la medesima impostazione assurdista. Proprio dal contrasto tra la natura dei dialoghi e l’impostazione recitativa, viene spesso generato un sottile e dissacrante effetto comico, tuttavia più dosato rispetto al precedente The Lobster, data la differente tematica.
Con un progetto di questo tipo è sempre un’impresa ardua per un regista trovare attori in grado di recepire le proprie direttive e trasporle stando attenti a non dichiarare la farsa; ma ancora una volta, Lanhimos raccoglie la sfida con successo.
Per tutto il tempo si ha la meravigliosa sensazione di assistere a personaggi allegorici che si muovono all’interno di una favola dal sapore quasi esopico, che richiama le origini del regista.
The Killing of a Scared Deer Recensione – Colin Farrell è un attore che agli inizi della sua carriera si è spesso appoggiato alla propria immagine di bad boy per ottenere ruoli di rilievo in grandi produzioni. Negli ultimi anni si è tuttavia riscontrato un suo notevole avvicinamento al cinema impegnato ed autoriale, con la consacrazione definitiva avvenuta proprio con The Lobster. Con The Killing of a Sacred Deer, Farrell conferma di aver trovato con Lanthimos la propria dimensione ideale per donare prove di altissima qualità; grazie alle proprie caratteristiche interpretative egli concretizza perfettamente l’estro visionario del regista, avvicinandosi sempre più ad essere considerato un suo feticcio.
Lo stesso dicasi per Nicole Kidman, ultimamente in grande spolvero e qui alle prese con una nuova complessa interpretazione, ennesima riconferma dell’immenso talento dell’attrice australiana e della sua predisposizione per i ruoli dalle connotazioni algide. Di impressionante maturità le prove dei figli della coppia protagonista interpretati da Raffey Cassidy e Sunny Suljic.
Ma il perno attorno cui ruota la storia è rappresentato dalla figura del giovane Martin, interpretato da Barry Keoghan (già visto in Dunkirk).
Martin assume all’interno del film una miriade di sfaccettature allegoriche. La reale natura del suo rapporto col protagonista emerge progressivamente con l’incedere del racconto, ma nulla può prepararci a cosa egli si troverà a rappresentare veramente all’interno della storia. La recitazione di Keoghan riesce nell’impresa di portare sullo schermo un personaggio indecifrabile, ambiguo, inquietante, che cambia direzione da una scena all’altra e che rappresenterà una grande fonte di disagio per il protagonista e per lo spettatore. In un modo che ricorda i personaggi di Paul e Peter in Funny Games di Michael Haneke.
Lanthimos adotta una regia fondamentale nella costruzione delle atmosfere, creando un legame indissolubile con la materia narrata.
Le scene di transizione sono accompagnate da lente zoomate, che allargano o restringono i campi lunghi a seconda della situazione e contribuiscono enormemente ad accrescere l’intensità delle scene. Assistiamo poi a lunghe carrellate e ad una forte componente geometrica nelle inquadrature, capace di esaltare la freddezza degli ambienti ospedalieri nei quali le scene hanno spesso luogo.
I campi totali realizzati con lenti grandangolari donano enorme profondità ed ampiezza agli ambienti chiusi che appaiono agli occhi dello spettatore come immensi, e nei quali i personaggi occupano quasi sempre uno spazio esiguo. Ma nella cifra stilistica del regista occupano un ruolo di rilievo anche i frequenti primi piani, che raggiungono altissime vette di pregevolezza estetica trovando sempre le giuste angolazioni; le quali vanno a rispecchiare la condizione emotiva dei personaggi nella dinamica della scena. Il tutto viene coronato dalla fotografia costantemente impostata su toni gelidi e dalla cupissima e disturbante colonna sonora. Una presenza fissa nei film di Lanthimos, che si rivela fondamentale per la chiave di lettura delle scene ed esalta enormomente la componente grottesca.
In uno scenario in cui l’industria cinematografica è dominata da faraoniche produzioni sbancabotteghini è sempre confortante riscontrare che c’è ancora chi rinnega ogni rapporto con il mainstream e riesce ad imporre la propria idea di cinema con passione, coraggio, mestiere ed il “solo” ausilio economico di 4,4 milioni. Con The Killing of a Sacred Deer Lanthimos si conferma uno dei pochissimi registi attuali in grado di comporre autentiche opere astratte su pellicola; un autore destinato ad essere annoverato tra i maggiori esponenti della settima arte di inizio secolo.