Fargo – La serie
Eccoci di ritorno con la continuazione della nostra analisi di Fargo, la serie degna dei fratelli Coen.
Eccoci di ritorno con la continuazione della nostra analisi di Fargo, la serie degna dei fratelli Coen.
Diversa, più tendente al grottesco amato dai Coen, meno improntata sull’impatto epico dei personaggi, sull’allegoria biblica, ma non per questo priva di rimandi e di collegamenti col film, ovviamente. Se nella prima stagione pochi personaggi dominavano la scena (principalmente: Lester, Malvo e Molly), la seconda stagione si articola in un vero gioco corale di personaggi, che ne rendono probabilmente molto più complessa un’analisi sintetica delle dinamiche.
I Blumquist sembrano più di ogni altro sopravvivere agli eventi per puro caso, salvo poi ritrovarsi nuovamente invischiati nel ciclo di violenza in modi altrettanto fortuiti
Tra questi, indubbiamente i coniugi Blumquist occupano un posto rilevante nell’economia della narrazione, soppiantando in un certo senso quello di Lester Nygaard nella prima, se si vuole trovare un’analogia: due personaggi che, invischiati per puro caso in una situazione terribile, più grande di loro, cercando per tutta la storia di evitarne le tragiche conseguenze. Ma se Lester col tempo passa dall’elaborare escamotage tragicomici a veri e propri piani studiati e articolati, i Blumquist restano fedeli al puro spirito di Jerry Lundegaard del film; assolutamente inadeguati a quello che stanno affrontando, dando vita a scene tra il grottesco e l’esilarante.
Sembrano sopravvivere agli eventi, o scamparla, per puro caso, così come per puro caso vengono costantemente invischiati in quel circolo di sangue e violenza senza freni che li circonda, verso cui sono fondamentalmente estranei, ma che pare attirarli a sé nei modi più disparati, assurdi e insensati. L’assurdo è ben rappresentato nel corso della narrazione dalla comparsa dell’UFO, una delle più grandi allegorie presenti in questa stagione molto più vicina della prima allo spirito irriverente dei Coen – si pensi alla televisione, argomento cardine di Fargo, che rincretinisce praticamente tutti i personaggi all’interno del film, e in questa stagione Peggy Blumquist, portandola ai limiti della schizofrenia.
Qualcosa di così improbabile – ma mai impossibile – sta per avere luogo. Non è un banale espediente narrativo, come si potrebbe superficialmente pensare, ma un simbolo di grande carica allegorica. Quello che Malvo incarnava nella prima stagione, è ripreso nella seconda da un oggetto che viene esplicitamente da un altro mondo. Appare quando Rye Gerhardt, dopo aver insensatamente e goffamente trucidato praticamente ogni cosa si muovesse in una tavola calda, attraversa la strada davanti a quest’ultima, distraendolo, e facendolo così investire da una Peggy Blumquist (una grandiosa Kirsten Dunst, sempre opportunamente sopra le righe) passata di lì per puro caso.
Appare quando Ohanzee – personaggio che molti hanno inteso come assimilabile a Malvo, ma con cui mi permetto di non essere d’accordo – ritorna sulla scena dell’incidente, facendogli quasi casualmente notare un frammento di parabrezza che lo spingerà sulle tracce dei Blumquist – che sembra poi voler uccidere paradossalmente anche dopo aver tradito i Gerhardt, come se fosse divenuta una questione personale, ma mettiamo in stand-by Ohanzee.
Appare infine quando Bear sta per sopraffare Lou, nel grottesco, violentissimo, insensato massacro di Sioux Falls, distraendolo, e permettendo a Lou di rovesciare le sorti dello scontro e avere la meglio.
Perché la realtà è viva in Fargo. La realtà parla; non solo in Fargo, ma più o meno in tutte le opere dei Coen, i quali manifestano la loro volontà spesso attraverso deviazioni e stonature di registro mirate o attraverso digressioni che paiono non avere senso all’interno della narrazione; ma che se viste con gli occhi di chi vuole indagare la realtà , anche nei suoi angoli più difficili e bui, si capisce di avere le chiavi per un universo che pare un immenso labirinto.
“Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta delle pinne che ondeggiava piano, nella corrente. Li prendevi in mano: odoravano di muschio. Erano lucenti, forti, si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti di una cosa che non si poteva rimettere a posto, non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo e vibrava di mistero.“
Una realtà che vibra di mistero, come quella mostrata in Fargo – sui parallelismi tra i Coen e McCarthy si potrebbe scrivere un altro articolo, per cui sorvoliamo su questo. Perché, mantenendo intatto il vero spirito di Fargo, il film, anche qui uno dei temi portanti della serie continua ad essere la violenza.
L’oscuro, il buio dell’uomo e del mondo. Forse c’è addirittura molta più violenza in questa seconda stagione rispetto alla prima, una brutalità che assume maggiormente i connotati di una lotta continua e sempre insensata che va avanti fin dall’alba dei tempi; si pensi ai rimandi alle guerre Indiane, alla guerra del Vietnam i cui strascichi si avvertono ancora praticamente ovunque. Ohanzee, sicario Sioux dei Gerhardt, improvvisamente, senza alcuna ragione apparente, decide di prendere in mano le redini del suo destino e massacrare chiunque gli capiti a tiro; quasi per vendicare in tal modo quello che sono stati costretti a subire bisnonni di cui forse non ha mai conosciuto neanche il nome.
Qui entra in gioco il personaggio di Lou Solverson e la sua famiglia. Gli echi camusiani sono presenti e spesso espliciti lungo tutta la stagione – si pensi alla giovane collega di Ed Blumquist che espone a quest’ultimo il mito di Sisifo -, ma tutti paiono condensarsi su Lou Solverson.
Per Camus, dice la giovane, rispondendo ai baluginanti sogni di Ed in pieno stile da American Dream, sapere che si deve morire rende la vita null’altro che uno scherzo. Qualunque cosa si faccia, quel fine ultimo pare spogliarla di ogni senso e significato. Si badi bene, per chi non ha visto la serie, la scena risulta molto grottesca e divertente, ma indubbiamente insinua un tema molto importante all’interno di Fargo. Tematica che si ricollega ad una realtà che vira verso il nulla, un discorso temporaneamente interrotto nell’analisi della prima stagione.
Non nel senso più apocalittico del termine. Non è una realtà che non ha senso, è una realtà che nel complesso, nella sua assolutezza, non ha senso, ma continua a trovarlo nelle sue piccole circostanze quotidiane. Perché, in fondo, non è possibile avere piena contezza dell’oscuro, scavare nei suoi meandri senza rapportalo almeno ad uno spiraglio di luce. Per quanto imbrigliati nella fatalità e corrotti dallo scorrere del tempo, le relazioni tra gli eventi esistono.
Il fatto che non si possano conoscere pienamente, in ogni circostanza, non implica necessariamente un annullamento del senso di ogni cosa. Come altro spiegare il commovente tentativo di Hank, il cognato di Lou, di creare un utopico idioma universale (tra le metafore più potenti di tutto l’universo Fargo), attraverso cui ogni persona si sarebbe potuta comprendere con l’altro, sperando che questo possa far interrompere quest’insensata mattanza senza fine.
Una chiara esemplificazione del Mito di Sisifo: sarà impossibile per Hank riuscire nel suo intento, lo sa lui e lo sa anche Lou, ma questa pulsione esiste. La realtà , anche e forse soprattutto nelle circostanze più dure e assurde, spinge l’uomo a ricercare una parvenza di significato.
Ma quanto è possibile attuare questa ricerca del senso, in un mondo che sembra dominato dal caos e dall’assurdo, nell’era della post-verità ?
Per chiarire meglio questo punto, e spiegare più approfonditamente perché i Coen non siano nichilisti, passiamo ad analizzare la terza stagione, dove viene introdotto probabilmente uno dei personaggi più affascinanti del piccolo schermo; la vera, e finora più grande, personificazione dell’ultima nemesi di Fargo: