Ghost Dog - La recensione - Re del panorama indie americano, Jim Jarmusch racconta l'incredibile storia di un killer nero che segue la via del bushido.
C’è onore nell’uccidere su commissione? Si possono, ancora oggi, seguire i dettami del Bushido, l’antica via del guerriero giapponese? Ma soprattutto, può un afroamericano vestire i panni di un samurai?
La risposta che Jim Jarmusch ci dà a tutti questi quesiti è un grandissimo sì. Ghost Dog – Il Codice del Samurai è una delle opere più belle che il regista americano abbia saputo dirigere, raccontando una storia fuori dal tempo ma perfettamente calata nell’America di oggi. Un elogio alla rettitudine morale in un mondo, quello contemporaneo, dominato da interessi ben poco nobili, raggiunti spesso con mezzi altrettanto meschini.
Ghost Dog – La recensioneÂ
Presentato in concorso al 52° Festival de Cannes, “Ghost Dog” racconta la storia di un sicario afroamericano, soprannominato appunto Ghost Dog (Forest Whitaker).
Il sicario obbedisce ad un boss della mafia italoamericana, Louie, con cui comunica soltanto attraverso i suoi piccioni viaggiatori. Louie lo ha salvato qualche anno prima ed ora Ghost Dog lo serve come un padrone, nel pieno rispetto del codice Bushido. Quando Louie gli chiederà di uccidere un uomo della mafia, le parti si ribalteranno. Saranno gli stessi mafiosi a volere morto il sicario, che continuerà a rispettare il suo signore fino alla morte.
Ghost Dog – La recensione – Opera tanto improbabile quanto perfettamente realizzata, il film di Jarmusch mette in scena molti elementi della cinematografia europea e asiatica. A partire da uno spiccato citazionismo verso Le Samourai di Jean-Pierre Melville, richiamato in più occasioni dal regista americano. I parallelismi sono tanti: la lettura dell’Hagakure, gli uccelli, l’ambiente mafioso, i guanti bianchi ed i furti d’auto, per citarne alcuni. In questo contesto, però, il regista riesce a raccontare una storia perfettamente contemporanea, che si ispira al noir ed al gangster movie prendendo però una via del tutto personale ed unica.
Tecnicamente la regia essenziale, quasi scarna e pulitissima di Jamusch fa il suo lavoro in maniera ottima, gestendo molto bene i tempi. Nonostante le tematiche, la violenza non è mai l’elemento dominante del film. I tempi riflessivi sono molto più importanti e prendono più tempo, ma quando la violenza prende piede Jarmusch riesce a regalarci momenti memorabili per intensità ed ispirazione. Non stiamo parlandodi un film anti-americano, ma sicuramente più europeo ed asiatico per vocazione ed influenze.
La colonna sonora, composta da RZA del Wu Tag Clan, è una delle più belle soundtrack hip-hop mai prodotte.
Si integra perfettamente nel film, senza risultare mai forzata, unendo tratti tipici della black music, l’hip-hop e richiamando spesso suoni del lontano oriente. Una scelta perfettamente azzeccata che completa il quadro delle influenze e attualizza, se ancora ce ne fosse bisogno, ulteriormente il film.