Chi più chi meno, ma nessuno al mondo si augura di ritrovarsi un giorno tra le mandibole più potenti create da Madre Natura. E’ un timore innato più che naturale. Si tratta di un superpredatore marino che può arrivare a pesare alcune tonnellate, con ogni singola parte del suo corpo modellata da milioni di anni di evoluzione con il solo scopo di uccidere. Una fredda e perfetta macchina di morte.
Ma quello che in pochi realizzano è di non aver paura degli squali, ma degli squali cinematografici.
Gli squali cinematografici sono capaci di cose straordinarie. Possono sbucare fuori dal nulla in qualsiasi luogo e momento analogamente agli spettri, perforare ogni tipo di imbarcazione, sviluppare autentici sentimenti di ostilità e seguire anche una strategia nelle loro azioni; spesso molto, molto confusa. Alcuni di essi arrivano persino ad attraversare interi oceani per arrivare alla propria nemesi umana (vedasi Lo squalo 4 – La vendetta). Soprattutto, nei film capita sempre di trovarsi nel loro fantomatico territorio di caccia, che nessuno mai si è soffermato ad interrogarsi su cosa significhi di preciso, e nel quale le regole della biologia marina cessano di esistere.
The Reef, ad una valutazione più che obiettiva, può essere identificato con ogni probabilità come lo shark movie più realistico mai girato. O, esulando dal sottogenere, uno dei thriller più realistici.
Quello degli shark movie, inaugurato dal capolavoro di Spielberg del 1975, è un filone che sin dalla sua nascita si prepone prevalentemente di intrattenere il pubblico medio; rigorosamente sotto periodo estivo e presentando diverse analogie con lo slasher. Nelle sue trame è sempre presente una cerchia di persone, spesso giovani, che si avventura per mare, e dopo non troppo tempo si trova alle prese con una minaccia concreta rappresentata da uno o più predatori marini. I quali incorporano le caratteristiche di autentici villain cinematografici. Lo squalo, anche a sazietà inoltrata, farà tutto ciò che è in suo potere pur di sterminare la comitiva, e non esiste modo di fermarlo se non quello di eliminarlo.
Inoltre, si può scommettere la camicia che le morti saranno sapientemente diluite attraverso il film per mantenere alto il tasso di attenzione; altrimenti una grande maggioranza del pubblico pagante, più o meno a metà del film comincerà a dire “Ma quando arriva lo squalo?”, “Quando muore qualcuno?”, “Quando si vede il sangue?”.
Il regista australiano Andrew Traucki, con l’ausilio di pochissimi mezzi, porta sullo schermo un’idea semplicemente rivoluzionaria: realizzare uno shark movie senza gli squali cinematografici.
Non è assolutamente detto che persona in acqua più squalo equivalga a fatalità, ma ciò non toglie che possa benissimo accadere se lo squalo decide che vale la pena dare un assaggio. Un pensiero già abbastanza terrificante di per sé, senza bisogno di spettacolarizzazioni. Traucki sceglie così di girare un thriller “squalesco” in cui la tensione è giocata sul timore di ciò che potrebbe potenzialmente accadere nella vita reale. Non si basa su quello che fa lo squalo, ma su quello che provano i personaggi. Li vediamo squadrare spasmodicamente le profondità oceaniche, con la tensione che cresce in loro, e così in noi, ad ogni movimento sospetto; ad ogni banco di pesci; ad ogni semplice suggestione.
Cosa assolutamente inedita per il genere, nel film si tiene conto nel dettaglio delle caratteristiche biologiche e comportamentali di questi temibili superpredatori. Nessuno viene trascinato sott’acqua a sorpresa nei momenti chiave del climax, nessuno squalo balza atleticamente fuori dall’acqua per decapitare malcapitati. Un approccio diverso e poco sfruttato: tutto ciò che vediamo non è mai meno che tragicamente verosimile.
THE REEF RECENSIONE – Il film è ispirato ad un fatto di cronaca realmente avvenuto nel 1983, del quale, a parte qualche drammatizzazione, si riproducono gli eventi abbastanza fedelmente. Vediamo una comitiva di cinque persone salpare su un piccolo yacht con l’intento di praticare immersione. L’atmosfera che si respira nel primo atto è talmente distesa e lontana da quella di un thriller di stampo classico che si fa veramente fatica a prevedere il modo e il momento in cui qualcosa potrebbe andare storto. Detto fatto: lo scafo viene squarciato da un fondale basso causando il capovolgimento dell’imbarcazione. Dopo essersi messi in salvo sul relitto galleggiante, quattro degli occupanti decidono di raggiungere a nuoto un’isola relativamente poco distante, mentre uno decide di restare sperando in un soccorso.
Ma come è possibile azzerare completamente ogni elemento di artefazione in un thriller?
Il merito è di molteplici fattori. Il regista adotta una regia di stampo nettamente documentaristico: lenti poco profonde, nessun tipo di fotografia cinematografica e la totale assenza di inquadrature fisse o stabili, con un uso quasi totale della steady cam. Lo stile adottato è talmente true to life che viene quasi da chiedersi se prima o poi sarà in grado di generare tensione. Ma diventa lampante che il film vive in funzione di tale stile, ponendosi la scommessa, vinta, di raggiungere la massima vetta immaginabile di realismo senza rinunciare ad una solida messa in atto dei meccanismi del thriller.
Il regista riesce a fare una piccola magia: costruire un climax potentissimo basato su situazioni di cronaca, senza l’appoggio di alcuna convenzione registica o di scrittura. Tutto ciò su cui può fare affidamento è la sua capacità di rendere terrificante la natura ed il suo nichilismo, e la totale impotenza di chi si trova a doverci fare i conti.
Il film gioca bene ogni singola carta a sua disposizione. A costruire sapientemente la suspense durante il primo, lungo tempo, contribuiscono le prove degli attori. Anche se palesemente dilettanteschi, denotano un realismo nelle reazioni semplicemente sbalorditivo, lasciando credere che possano davvero essere persone qualunque. Si fa quasi fatica a distinguere la realtà dalla finzione, vista l’abilità di ogni personaggio di agire in maniera estremamente fedele alla vita reale. Ne giova un’empatia in costante aumento, di minuto in minuto; soprattutto, risultano estremamente efficaci le scene in cui subentra lo shock.
E quando lo squalo arriva, perché arriva, sancisce finalmente l’unicità del film.
Per rappresentare il vero protagonista del film è stato fatto esclusivamente uso di autentiche riprese subacquee su grandi squali bianchi, con l’appoggio di un eccellente lavoro di montaggio a dare l’illusione che possa concretamente entrare in contatto con i protagonisti. Le morti vengono mostrate nella maniera più schietta e diretta immaginabile; nessuna ripresa a effetto, nessuna edulcorazione, solo la semplice e brutale esposizione di ciò che inevitabilmente accade. L’uso degli effetti visivi è limitato esclusivamente a un paio di scene, in cui si mimetizza alla perfezione nel contesto. A mettere la ciliegina sulla torta ci pensa la colonna sonora: musiche che si traducono in pura tensione, divenendo un elemento cruciale per la riuscita del climax.
Un thriller minimalista e sperimentale. Un tour de force di tensione realizzato con un dispendio di risorse materiali praticamente nullo e un’eccellente padronanza della costruzione della suspense. Se siete stanchi dei soliti shark movie, questo vi assicuriamo che vi terrà fuori dall’acqua per un bel pezzo.