Takeshi Kitano ha fatto largo uso del genere gangster nei suoi film, fino a diventare uno dei maestri di quel cinema. Il suo modo di trattare il mondo della Yakuza è unico: nessuno come lui ha saputo lavorare sui topos del genere per stravolgerli completamente. Il regista giapponese ha saputo creare una propria poetica fatta non solo di violenza, ma anche di attenta riflessione verso la condizione umana. Il ritorno all’infanzia, perfettamente rappresentata ne L’estate di Kikujiro e il puro Yakuza movie confluiscono in Sonatine, diretto nel 1993 prima del grande successo internazionale di Hana-bi.
Sonatineè la quarta fatica da regista da Kitano, che firma anche sceneggiatura e montaggio, oltre ad esserne il protagonista.
Il film viene presentato nella sezione “Un certain regard” del Festival de Cannes. Mal accolto nelle sale giapponesi, vedrà poco a poco un successo di pubblico e critica sempre crescente, fino ad essere considerato uno dei migliori film dell’autore giapponese. Sarà anche la pellicola che segnerà l’approdo nel resto del mondo di Kitano, fino ad ora conosciuto solo in patria.
La trama, come del resto molti aspetti del film, è estremamente scarna. Murakawa (Takeshi Kitano) è uno Yakuza stufo della vita che conduce. Vicino al ritiro, viene mandato nella lontana isola di Okinawa per mediare tra due clan amici in rivalità fra loro. L’uomo è dubbioso a riguardo dell’incarico, ma si reca sull’isola comunque. Come sospettato, la mossa si rivela una trappola. Murakawa ed il suo gruppo verranno attaccati e il gangster si rifugerà allora in una casa vicino al mare, isolata da tutto.
È bene notare come il nucleo centrale del film non siano questi eventi, quanto tutto quello che accade intorno.
Kitano genera tra gli spazi lasciati dagli eventi un tessuto interstiziale che, oltre a collegare i (pochi) fatti utili alla trama, dona un senso tutto diverso agli stessi. È in questi spazi, che si generano spontaneamente e in maniera del tutto naturale, che Kitano riversa tutta la sua poetica. Un’opera in questo senso ante litteram, che contiene in nuce tutti gli elementi per cui il regista nipponico avrà tanto successo nel mondo.
C’è un freddo ritratto del mondo della Yakuza, che sta sempre più perdendo il concetto di lealtà ed onore. C’è la violenza, mostrata e non con il sapiente uso del fuori campo, ma sempre concreta e cruda. La regressione all’infanzia come età di innocenza incorrotta chiude perfettamente il cerchio di quello che Kitano ha saputo donare al mondo del cinema nel corso degli anni. E c’è ovviamente lui, perfetto interprete del difficile ruolo di protagonista che ha reso iconico il suo volto con quell’unica espressione, condizionata da una parziale paresi facciale che affliggerà il regista negli anni seguenti.
La pellicola è pervasa da una grande disillusione verso la vita e la morte. Un mal di vivere, un’angoscia tremenda da cui non si può scappare. Gli Yakuza si rifugiano in una spiaggia, in cui giocheranno e scherzeranno fino all’ineluttabile giorno della propria morte. I personaggi di Kitano non sanno prendersi sul serio, tanto da mettere continuamente in scena la propria morte nei loro giochi infantili. In un certo senso, sono lo specchio di una società spesso criticata del regista, che ha perso i valori fondanti e si è inaridita fino al punto di non ritorno.
Dal punto di vista registico, il lavoro di Kitano è, come al solito, perfettamente coerente con la sostanza che porta sullo schermo.
I lunghi e scarni piani fissi, i primi piani, l’estremo realismo della fotografia e la sua sostanziale semplicità nascondono un formalismo tipicamente giapponese, che si rifà ai mastri degli anni ’50, su tutti Ozu e Mizoguchi. A questo però Kitano unisce elementi post-moderni, generando uno stile di cui è unico depositario. Come accennato prima, la violenza è sapientemente mostrata ed altrettanto sapientemente relegata al fuori campo; non viene esaltata né condannata, ma solamente raccontata con il freddo cinismo e disillusione della pellicola.
La colonna sonora composta dal Maestro Joe Hisaishi (lo stesso compositore dei film di Miyazaki) si integra perfettamente con il resto del film. Una musica estremamente contemporanea ed enigmatica che fa crescere la tensione sullo schermo e che segna la seconda collaborazione con Kitano. Una lunga e fruttuosa collaborazione che continuerà fino al 2002 con Dolls.
Per concludere, Sonatine è uno dei film fondamentali, ammesso che esistano, nella filmografia di Takeshi Kitano. L’autore giapponese vincerà il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia pochi anni dopo con Hana-bi, arrivando finalmente alla consacrazione. Sonatine anticipa, se non in maniera totale, gran parte del lavoro che verrà, a partire e a concludere con quel gesto estremo che chiude le due pellicole, ultimo rifugio per gli angosciati uomini di Kitano.