Perché il nuovo Assassinio sull’Orient Express è inferiore all’originale di Lumet

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Assassinio sull’Orient Express, uno dei tanti romanzi scritti da Agatha Christie con protagonista l’investigatore Hercule Poirot, è senza ombra di dubbio uno dei classici più amati della letteratura gialla.

Numerosi gli adattamenti cinematografici e televisivi, ma tra questi il più memorabile resta quello realizzato da Sidney Lumet nel 1974, candidato a sei premi Oscar (vincendo quello per la miglior attrice non protagonista, assegnato a Ingrid Bergman) e unica volta in cui Poirot è interpretato dall’attore britannico Albert Finney.

Dopo ulteriori trascurabili adattamenti susseguitisi nel corso dei decenni, il 2017 ha visto il turno dell’apprezzato regista e attore shakespeariano Kenneth Branagh. Egli ha proposto una nuova versione del racconto cimentandosi sia con la regia che con l’interpretazione dell’iconico detective. Il risultato, a detta della critica, è un film ricco di buone interpretazioni e che non scende troppo sotto la sufficienza, ma che al contempo non presenta contenuti sufficienti a giustificare completamente l’ennesima riesumazione di questo soggetto, rendendo impietoso il paragone con la versione di Lumet.

Perché?

Orient Express
Albert Finney nei panni di Poirot.

In vetta alle motivazioni, troviamo quella che costituisce il motore immobile del genere giallo: l’esposizione.

Il film di Lumet si ricorda per la sua abilità di concedere allo spettatore un ampio respiro nel comprendere in ogni momento della storia chi siano i personaggi, quali siano i loro rapporti, le loro backstory e il loro status all’interno del racconto. Soprattutto durante il primo atto si denota un andamento particolarmente agiato della narrazione, estremamente utile ad ambientarsi e a prendere confidenza col protagonista. Ad ogni personaggio, durante i rispettivi interrogatori, viene concesso il proprio spazio ben distinto e scandito, così che lo spettatore abbia il tempo materiale di metabolizzare le sue caratteristiche ed elaborare attivamente le proprie ipotesi.

In quella di Branagh, la costruzione della suspense è molto meno efficace. C’è troppa fretta espositiva, troppa frenesia nelle caratterizzazioni sin dall’inizio; ciò non significa che la trama del film sia incomprensibile, ma dal momento che lo spettatore è continuamente sballottato tra un personaggio e l’altro senza poter empatizzare a dovere con nessuno di essi, il livello di appagamento e coinvolgimento sarà decisamente minore rispetto al predecessore.

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Kenneth Branagh nei panni di Poirot.

Un’altra differenza sostanziale tra le due versioni risiede negli specifici generi d’appartenenza.

L’Assassinio di Lumet presenta caratteristiche unicamente circoscritte al genere giallo: c’è un omicidio, un detective e una lista di sospettati su cui indagare. E’ unica premura del regista sollecitare l’intuito dello spettatore tramite ogni passo dell’indagine, non ponendosi in alcun modo l’obiettivo di suscitare tensione in esso, se non solo marginalmente. Al contrario, il film si rivela spesso piuttosto divertente, soprattutto grazie ai modi eccentrici del protagonista fedeli alla controparte letteraria e all’ironia presente nelle connotazioni umane di diversi personaggi.

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Ma quello puramente giallo è da considerarsi oggi un genere cinematografico commercialmente morto, ecco perché lo sceneggiatore Michael Green sceglie di contaminare il nuovo adattamento con tinte drammatiche e thriller, concentrate in gran parte verso il finale che si discosta nettamente da quello del libro e della versione di Lumet. E se uno spettatore medio che visiona come prima versione quella di Branagh non darà eccessivo peso a questo ribaltamento di situazioni, coloro che hanno visto e amato quella di Lumet non potranno che notare la convenzionalità di tali scelte.

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Dulcis in fundo, in questa nuova versione, a farne le spese più di tutti è l’occhio vigile dell’intera vicenda narrata: il celeberrimo investigatore belga Hercule Poirot. Quella di Albert Finney – assieme alle numerose presenze di Peter Ustimov nel ruolo – è facilmente inquadrabile come una delle interpretazioni più riuscite e fedeli del personaggio; giustamente candidata all’Oscar, dà vita a uno dei detective più memorabili dell’intera filmografia gialla. Il Poirot rappresentato nella versione del ’74 è un personaggio che intrattiene su ogni piano immaginabile: un perfetto mix di perspicacia, simpatia e teatralità. Poirot fa affidamento esclusivamente al proprio intuito, sorprendendo continuamente personaggi e spettatori con la reale portata delle proprie abilità, nascoste sotto i modi di fare caricaturali e spesso buffi.

Ma la figura dell’investigatore attempato e panciuto che si siede in poltrona con la pipa e risolve il caso usando solo il potere della propria mente è un altro elemento che oggi si presta a pochi sbocchi commerciali.

Ogni detective cinematografico odierno paga sommessamente lo scotto del successo commerciale dello Sherlock Holmes di Robert Downey Jr., introdotto dalle versioni di Guy Ritchie. Ed è così che il Poirot di Branagh assume leggere contaminazioni action, basate sull’applicazione delle proprie facoltà deduttive ad interventi attivi nelle rocambolesche scene nuove di zecca, per l’appunto come l’Holmes di Downey Jr.; ovviamente delle scelte più che velenose in termini di fedeltà allo spirito dell’opera originale.

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Inoltre, viene conferito al protagonista un abbozzo di profondità psicologica estremamente goffo, circoscritto ad un paio di scene ed assolutamente ininfluente all’economia del racconto. Nello specifico, vediamo Poirot dubitare di punto in bianco delle proprie capacità, salvo riacquistare fiducia subito dopo, e trovare conforto rivolgendosi alla defunta moglie. Tolto ciò, quello di Branagh è comunque un approccio al personaggio che strappa la piena sufficienza, trasponendo efficacemente parecchi degli aspetti caricaturali di Poirot su citati, e raggiungendo un livello di empatia con lo spettatore tutto sommato soddisfacente.

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Assassinio sull’Orient Express di Branagh non è un film particolarmente brutto o sciatto nel suo genere.

Per i canoni di un odierno thriller di cassetta scorre senza picchi e senza intoppi per tutta la sua durata ma presentando un fatale difetto: essere tanto, tanto innecessario.

Ma qual è il motivo di tale operazione?

Semplice: da che mondo è mondo, i soldi tirano. Quando un soggetto, come quello del romanzo della Christie, presenta un potenziale commerciale praticamente immortale, è inevitabile che ogni paio di decenni qualcuno si prenda la briga di cucinarlo in maniera leggermente diversa. Un piatto pronto per i palati delle nuove generazioni, che non si cureranno delle decine di altre versioni vecchie di decenni qualitativamente superiori, attirate da un thriller iper pubblicizzato interpretato dai loro beniamini e del quale non conoscono gli esiti. Commercialmente, il successo è garantito.

Per quel che ci riguarda, la controparte filmica più meritevole del romanzo resta quella di Lumet, e almeno per ora non sembra un primato destinato ad infrangersi facilmente. Il consiglio, per chi non abbia familiarità col racconto in questione, è senza dubbio quello di cominciare con la versione del ’74. Non solo per godere di un’esperienza cinematografica più appagante su tutti i fronti, che non avrebbe lo stesso impatto se vista per seconda, ma anche per la vicinanza dimostrata allo spirito originale dell’opera. Poi, eventualmente, si può dare un’occhiata a quella di Branagh, che pure i suoi pregi li ha, ma non tali da giustificarne la predilezione nell’ordine di visione.

Tra un paio di decadi, torneremo con ogni probabilità su questo discorso, valutando l’operato di coloro a cui verrà ancora una volta passato il testimone. Ma non crediamo che la storia cambierà di molto.