Anche quest’anno, come ogni anno, il Natale è tornato a bussare alle nostre porte. Fra alberi e decorazioni, regali e zabaioni, le nostre case vengono nuovamente invase dalla solita compilationi di Micheal Bublè, mentre gli schermi cominciano a rigurgitare tonnellate di film natalizi.
Ad ogni ora, su ogni canale, vediamo affacciarsi il bonario faccione di Babbo Natale, personaggio ormai declinato in ogni modo ma quasi sempre avvolto dallo stesso alone di bei sentimenti, speranza e dolcezza.
Il Natale è iperglicemia
Per la maggior parte di noi questa abbuffata di certezze caramellate è condizione necessaria per affacciarsi al nuovo anno con un briciolo di speranza nel futuro. Si sa, però, il mondo è bello perchè vario.
Esiste una minoranza silenziosa a cui questa spolverata di celluloide a velo risulta, talvolta, un po’ indigesta. Il pandoro al cioccolato è certamente una prelibatezza, ma non è per tutti.
Questo pezzo è dedicato a tutti coloro che alla melassa preferiscono il cioccolato fondente; a coloro che nell’eterna lotta fra pandoro e panettone, scelgono il panino col salame e il pecorino.
Se desiderate un Natale dal sapore diverso, Rare Exports: A Christmas Tale è il film che fa per voi!
Diretta e scritta dal finlandese Jalmari Helander (Big Game – Caccia al Presidente), la pellicola ci racconta un Natale che non ti aspetteresti. La rareffatta aria fatta di zenzero e certezze, tipica dell’odierna iconografia natalizia, lascia spazio ad un tetro ed angosciante racconto, che affonda le proprie radici negli oscuri miti nordici.
La trama
In uno sperdutissimo villaggio della Lapponia, i pochi residenti si apprestano a celebrare l’imminente Natale. Quel lieto periodo che per noi significa regali e sorrisoni, in quelle gelide, desolate terre si traduce in ben altro. Rauno, Aimo e Piiparinen, uomini tosti, forgiati dal gelo filnlandese, aspettano il ritorno a valle delle renne.
Mentre a latitudini più favorevoli si affettano pandori, i tre sperano di poter affondare le loro lame nella viva carne di cervide per poterne ricavare tagli buoni per la sussistenza. Il Natale, in Lapponia, è una questione di sopravvivenza.
A pochi chilometri da lì, su un’alta e scura montagna, opera una ditta di escavazione statunitense. Gli ultimi carotaggi effettuati sul rilievo gettano in confusione gli operai. Sotto la dura roccia i macchinari rilevano almeno 20 metri di legno, troppi per poter esser giustificati con la presenza di un vecchio albero.
Interrogato, il mandante della spedizione, sembra intuire cosa sta accadendo. La struttura rinvenuta è di natura artificiale e serve a custodire un enorme blocco di ghiaccio.
Il monte è in realtà una prigione per qualcosa
Mentre i lavori procedono, le speranze dei tre intrepidi membri del popolo Sami si affievoliscono. All’appello si presentano solo due striminzitissimi cuccioli. Affiancati dai giovanissimi Pietari (figlio di Rauno) e Juuso (figlio di Aimo), decidono di procedere verso la montagna per indagare.
Di fronte gli si presenta uno scenario raccapricciante. Sulla landa di ghiaccio e neve si stende un campo di cadaveri. Più di cento renne giacciono morte e divorate, è un bagno di sangue. Il sospetto iniziale ricade su un branco di lupi, spinto probabilmente a valle dalle esplosioni che vengono dalla montagna.
I cinque, non senza qualche esitazione, decidono quindi di incamminarsi verso il cantiere per chiedere spiegazioni e pretendere il rimborso dei soldi (85mila euro) che avrebbero ricavato dalla vendita del bestiame, unica loro fonte di introiti.
Arrivati sulla cima, scoprono però che il cantiere è deserto, nemmeno l’ombra di un operaio è rimasta sulla scena. Da questo momento, la storia si concentra sulla prospettiva del fragile Pietari.
Incuriosito dai lavori, il bambino comincia a cercare risposte nei molteplici libri di storie nordiche che affollano la sua cameretta. Scavando nel passato del suo popolo, Pietari arriva ad un’inquietante conclusione.
Sotto quell’ammasso di roccia e legno potrebbe esser stato imprigionato niente meno che Babbo Natale
Questo nome, nel nostro immaginario, si incarna sotto connotati ben precisi: un bianco e lungo barbone, guance gonfie, giubba rossa, un tondo pancione scolpito nei biscotti, occhi ricolmi di spirito natalizio. Se questa rassicurante figura vi è indispensabile per restare aggrappati al vostro ultimo brandello di fanciullezza, vi consigliamo di non proseguire oltre nella lettura. Eravate stati avvertiti, questa è una recensione per gente tosta, forgiata nel salame e nel pecorino.
Secondo i racconti rispolverati da Pietari, Santa Claus sarebbe in realtà un feroce demone provvisto di lunghe corna. Per niente attratto da una dieta a base di latte e biscotti, l’ingorda creatura andrebbe invece ghiotta della tenera carne dei pargoli indifesi.
Mentre Pietari comincia a temere che i lavori di scavo possano aver risvegliato quest’orrida creatura, strani eventi accadono nel paesello. In una notte, le stufe ed i forni di ogni casa spariscono misteriosamente, seguiti a ruota da diversi bambini.
Le cose precipitano quando un invulnerabile vecchietto, gironzolando come mamma l’ha fatto, cade in una trappola per lupi sistemata da Rauno. L’ottuagenario non proferisce parola, ma cela una strana ombra nello sguardo.
Ciò che ne segue è un fosco romanzo di formazione in cui l’orrore si tinge spesso di humour tipicamente nordico.
“La Coca Cola ci ha sempre presi per il c**o!“
Questa citazione, tratta direttamente dal Rare Exports, ne svela efficacemente lo spirito. Attingendo a piene mani nella tradizione della sua terra, Helander sembra volersi divincolare dal consueto buonismo natalizio, edificando un’opera tetra e dissacrante.
Grazie ad una fotografia gelida e cupissima, veniamo immersi in uno scenario da brividi. La bellissima eppure desolata ed impervia Lapponia, cornice naturale della vicenda, comunica un senso di magnificenza ed impotenza. I protagonisti sono soli al cospetto di forze ancestrali che non comprendono.
Giocando con i miti sami, il regista ricostruisce un’iconografia antica che appare, però, nuovissima. Gli aiutanti di Babbo Natale non sono i soliti elfi colorati e saltellanti, ma una repellente orda di ceffi, sporchi e decadenti. I consueti costumi di vivace velluto lasciano spazio a grinzose e tumescenti nudità. Non troverete sorrisi e canzonette, ma famelici ghigni e feroci ringhi.
La regia, saggia e aggraziata, regge perfettamente il ritmo della narrazione. Le aspre distese desolate alternate ai claustrofobici interni ci calano nel giusto mood. La caratterizzazione visiva degli antagonisti è da manuale grazie anche a dei primi piani da incorniciare.
Helander non è indulgente, non risparmia sulla violenza
Il tono della storia ci è chiaro già in una delle prime scene. Pietari va in cerca del padre e lo trova nel capanno in cui macella le renne. Mentre il genitore smembra il cadavere senza testa di un cervide, il bambino, evidentemente a disagio, gli parla tappandosi gli occhi. Se cercate qualcosa di simile a Miracolo sulla 34esima strada, fareste bene a guardare altrove.
Evidente è la critica al sistema prevaricatore americano. Gli orrori si fanno largo solo in seguito allo scellerato sfruttamento del territorio da parte della multinazionale statunitense. Scatenando le ire del demone natalizio, Rare Exports riafferma il primato lappone sul natale ed invita tutti noi a resistere alla frenesia fatta di compulsiva omologazione. Che sia Natale, ma che sia il vostro Natale.
Incredibile il finale, in cui la tensione accumulata culmina in un trionfo di azione e battutacce da antologia, per assestastarsi su un epilogo che, pur sopra le righe, rimane perfettamente in linea con la cattiveria del resto dell’opera.
Creepy Christmas… but still Christmas
Pur rinnegando la classicità della cinematografia natalizia, Rare Exports ne mantiene intatte alcune tematiche, in particolar modo quella della famiglia e della crescita personale.
Pietri e Rauno sono inizialmente agli antipodi. Il bambino, fragile ed incerto, cerca disperatamente l’approvazione di un padre burbero ed apparentemente distante. Il rigido clima finlandese e le sue sfide sembrano aver indurito il cuore dell’uomo.
L’abissale divario che li separa ci viene riassunto in una singola inquadratura. Durante la colazione, i due siedono ai capi opposti del tavolo. A sinistra, Pietri, piccolo e scomposto, siede vestito di giallo e d’azzuro, portando sul capo un vistosissimo casco rosso; a destra, Rauno, è invece imperturbabile, una statuaria e slanciata macchia grigia. Il distacco cromatico è distanza emotiva.
Come nei migliori classici natalizi, anche in Rare Exportsgli adulti non capiscono una cippa. La mente aperta del bambino è in grado di scrutare elementi che l’occhio disilluso dell’uomo non può cogliere. A Pietri bastano pochi minuti di girato per capire cosa sta succedendo. Il suo tentativo di mettere gli altri in guardia rimbalza però contro il rassegnato realismo del padre.
Per conquistare la fiducia del genitore, il giovane protagonista dovrà abbandonare le sue paure e imboccare la strada che lo condurrà alla vita adulta. Ancora una volta, il passaggio ci viene raccontato in un’inquadratura. Di fronte alla sfida finale, Pietri abbandonerà al suolo il fidato pupazzetto che lo accompagna per tutta la pellicola. Il bambino è ormai lasciato alle spalle, di fronte abbiamo un primo abbozzo d’uomo.
In conclusione
Rare Exports è un fantasy-horror che affonda nel passato per lanciarsi nel futuro. La ricetta di Helander è semplice eppure efficace. Sfruttando la materia prima autoctona, il regista la condisce con la giusta dose di tensione e cattiveria fino ad ottenere un film natalizio dal gusto unico.
Se siete affezionati alle tradizioni fatte di zucchero, cappelli rossi e Michael Bublè, forse potrete anche procedere oltre. Ma sa desiderate assaporare qualcosa di nuovo, Rare Exports è il film che fa per voi.