«Certo, Kill Bill è un film violento. Ma è un film di Tarantino. Non è che uno va a un concerto dei Metallica e chiede a quegli s*****i di abbassare il volume»
E’ possibile creare un’opera che coniughi in un cocktail di generi la febbrile passione per la settima arte? Per Quentin Tarantino non c’é niente di più naturale e stimolante. Ideato come regalo per il trentesimo compleanno di Uma Thurman, Kill Bill (vol. 2 stasera alle 21:10 su Paramount Network) rimane ancora oggi una delle principali opere del regista statunitense, il suo canto del cigno e la sua più grande dichiarazione d’amore per il cinema. Tra omaggi agli spaghetti-western italiani, in particolare rivolti verso il maestro Sergio Leone, e i film anni ’70 dedicati alle arti marziali orientali, Quentin crea un capolavoro di genere, un cult dotato di un pubblico vasto di variegati ammiratori, consapevoli o meno della sopraffine autorialità dell’opera.
Fin dal folle titolo, e dall’altrettanto atipica trama, é possibile comprendere la spudorata natura della pellicola, un’epopea cinematografica divisa sapientemente in due volumi, ognuno dotato di aura propria. La Sposa, nome fittizio affibbiato alla sfortunata Beatrix Kiddo, si risveglia da un come durato ben quattro anni per vendicarsi del ristretto gruppo di sicari che hanno reso il suo matrimonio un incubo. Una semplice premessa che funziona unicamente da introduzione per la messa in scena di un progetto sicuramente più articolato ed esteso, il culmine del genio creativo del più grande dei registi contemporanei. Kill Bill rappresenta quindi, nella fattispecie, l’evoluzione del tanto acclamato voyeurismo registico di Tarantino, abile nel creare una regia dinamica e dichiaratamente autoreferenziale.
Dal classico mexican standoff alla trunk shot, passando per gli interminabili piani sequenza che lo hanno posto all’attenzione della critica internazionale, ci sono tutti i marchi di fabbrica del regista, consapevolmente utilizzati per rievocare e citare i punti fissi della filmografia tarantiniana.
Sono tante le sequenze ormai rimaste impresse nella mente degli appassionati del cinema di genere: il combattimento tra O-Ren e Beatrix, il dialogo finale con Bill, l’allenamento con Pai Mei e tanti altri. La sceneggiatura, come da abitudine, rimane una delle tante peculiarità delle pellicole di Quentin, dotate di dialoghi atipici che risultano geniali nella loro inclinazione grottesca e inconsueta, volta a trasformare situazioni apparentemente innocue in un’esplosione di scambi di battute, cariche di follia e ilarità. Non mancano però, in questo caso, momenti riservati alla riflessione attraverso numerose figure retoriche, soprattutto nella seconda parte dell’opera. Gli avversari della Sposa, ormai consapevoli del comune epilogo della loro esistenza, si perdono in singolari attimi di raccoglimento, carichi di un’atmosfera smaccatamente occidentale.
La colonna sonora , in linea con le scelte registiche, omaggia Ennio Morricone e le voci nipponiche dei secoli passati, insieme ai ben noti brani in cui risalta l’armonioso flauto di Pan di Gheorghe Zamfir o l’orchestra del compositore Luis Bacalov. Insomma, una carrellata di classici del passato collegati con una sottile linea alle tracce della cultura pop che Tarantino tanto ama e rende protagonista delle sue innumerevoli citazioni.
L’escalation sonora che accompagna l’intera opera, quindi, entra in simbiosi con la ricchezza visiva esposta per dare vita ad un poliedrico incontro tra due culture apparentemente avverse.
Proprio in questa continua antitesi tra occidente e oriente spicca l’originalità del lungometraggio, che fa dei luoghi comuni dei due schieramenti i suoi punti di forza.
Come di consueto, però, il regista di Knoxville non é esente da critiche da parte dei puristi, che demonizzano la componente eccessivamente violenta dei suoi film. A causa delle numerose accuse di censura, Tarantino utilizzò un sapiente sotterfugio per rendere le sue scene d’azione ancora più stilizzate e libere di circolare senza divieti, con il filtro in bianco e nero. Lo “showdown” alla Casa delle Foglie Blu rappresenta quindi il punto più alto raggiunto dalla pellicola, con le numerose variazioni della palette cromatica che si alternano ad una direzione esasperatamente laboriosa, che si evolve minuto dopo minuto. E’ doveroso citare anche il capitolo interamente animato dalla Production I.G. (famoso studio d’animazione giapponese) dedicato alle origini di O-Ren e il “faccia a faccia” finale, capace di far versare infinite lacrime anche ai cinefili più esigenti. Infine, per elogiare un’altra importante sfaccettatura di quest’immensa opera, conviene inchinarsi davanti alle performance del cast adibito nel complesso. Spiccano Uma Thurman, in uno dei punti più alti della sua carriera, e il compianto David Carradine, che trasuda passione in ogni singolo fotogramma.
Cosa rappresenta quindi, a conti fatti, un’opera così immensa come Kill Bill? Sicuramente uno dei più grandi esempi contemporanei del concetto di passione, dell’arte intesa come espressione personale e delle proprie bramosie. L’epopea della Sposa é un lascito ai posteri, alle nuove generazioni di cineasti, per comprendere ed intendere il cinema come una rappresentazione personale, un segno tangibile delle proprie aspirazioni e delle indimenticabili memorie degli anni più spensierati. Kill Bill, nel suo illusorio valore unicamente volto all’intrattenimento, trasmette il concetto stesso di arte.