Room recensione – Metafora del rapporto madre-figlio

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“Sono trentasette ore che sono nel mondo. Ho già visto i pancakes e anche una scala, e uccelli e finestre. E tantissime macchine. E nuvole, e polizia, e dottori. E nonna e nonno. […] Ho visto tantissime persone con facce diverse, forme e odori diversi, che parlavano tutte insieme. Il mondo è come tutti i pianeti della tv, accesi contemporaneamente, quindi non so da che parte guardare e ascoltare. Ci sono porte e poi altre porte, e dietro tutte le porte c’è un altro dentro, e un altro fuori, e le cose succedono, succedono succedendo, non si fermano mai. E poi, il mondo cambia continuamente di luminosità e di calore, e ci sono dei germi invisibili che galleggiano dappertutto. Quando ero piccolo, conoscevo soltanto piccole cose, ma adesso ho cinque anni e conosco tutto quanto” 

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Jack si sveglia, nel letto dove dorme insieme alla madre. Dolcemente sveglia anche lei, euforico per il giorno del suo quinto compleanno. Alzatosi dal letto prende a salutare gli oggetti presenti nella stanza, come fossero suoi amici. Di fatto sono i soli amici che Jack ha. E’ rinchiuso in quella stanza sin dalla sua nascita, e non conosce altro che non sia al suo interno. Non conosce il mondo che vive e pulsa, al di là di quelle quattro mura che costituiscono il suo microcosmo personale, e allo stesso tempo la sua prigione.

Non è nemmeno conscio di vivere in una prigione. Non conosce il mondo, se non attraverso la televisione, e non crede nella sua esistenza, pensando si tratti di una magia. Sua madre e quegli oggetti, ai quali è affezionato, costituiscono per lui l’unica realtà. Insieme a Old Nick, il suo carceriere, suo padre biologico. Joy, detta Ma’, è stata rapita da quell’uomo, che si occupa di loro, quando aveva 17 anni. Da allora vive prigioniera, celata al mondo.

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“Room”, quinto lungometraggio di Lenny Abrahamson, per il quale riceve meritatamente l’attenzione internazionale. 

Abrahamson raggiunge, con il suo ultimo lavoro, la piena maturità tecnica. Una maturità raggiunta a pieno anche sul piano stilistico-narrativo. Si dimostra ora pienamente conscio delle possibilità espressive offerte dal mezzo cinematografico.

La macchina da presa si muove fluida, in maniera suggestiva, riuscendo ad enfatizzare una visione quasi soggettiva della particolare infanzia del protagonista. Lo sguardo dello spettatore viene guidato dal regista, sovrapponendosi allo sguardo del bambino. Il pubblico si ritrova ad osservare e percepire ogni dettaglio che prende forma sullo schermo con una curiosità ora rinata, propria di Jack. Il bambino interagisce con gli oggetti della stanza, con la realtà che lo circonda, con un modo del tutto nuovo. Così anche lo spettatore.

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La sua è una percezione distorta dall’inconsapevolezza dell’esistenza di un mondo reale, che esiste oltre quello suo illusorio. Non ha mai potuto interagire con altri bambini, con l’ambiente intorno a lui e con gli oggetti e non sa come utilizzarli, come rapportarvisi. Cosa che dovrà imparare, suo malgrado, nella seconda parte della pellicola. Costantemente in bilico tra lo stupore e la meraviglia per la bellezza della natura, del cielo, gli alberi e gli animali; e la paura dell’ignoto. La paura degli estranei, che alti si muovono intorno a lui nel tentativo di accoglierlo e metterlo a proprio agio.

“C’è così tanto posto nel mondo. Il tempo è di meno perché lui dev’essere spalmato sottile sottile da tutte le parti: come il burro! Per questo tutte le persone dicono: “Su, sbrigati!”, “Dai, è ora di muoversi!”, “Datti una mossa!”, “Finisci subito!”. Ma’ aveva fretta di fare il bagno su in Cielo, ma si è dimenticata di me: tontolona Ma’! Poi gli alieni l’hanno riportata giù: “crash!” e l’hanno rotta.” 

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La scelta della colonna sonore e delle musiche, che accompagnano ogni scena ed inquadratura, risultano ulteriormente funzionali. Enfatizzano maggiormente quel senso di scoperta e al tempo di vulnerabilità, propria del bambino. Quasi ad amplificare la potenza visiva di scene significative.

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Abrahamson trae il soggetto per la sua quinta opera filmica dal romanzo omonimo di Emma Donoghue, tradotto in italiano “Stanza, letto, armadio, specchio”. Il libro si ispira liberamente ad un fatto di cronaca, il caso Fritzl.

L’accaduto fa da retroterra narrativo per l’elaborazione di un racconto che permette un’interessante riflessione. 

Viene inserito un fattore nuovo atipico nel racconto di genere thriller, in particolare nella storia di un rapimento e una prigionia. La novità, e la componente decisamente più interessante, è l’inserimento di una prospettiva infantile sulla narrazione dei fatti, ponendo al centro un difficile rapporto madre-figlio. Questo fattore permette di operare interessanti digressioni sul piano psicologico sulla relazione familiare. Nonché sull’interazione e l’azione del bambino, in fase di crescita, nel relazionarsi al mondo e altri esseri viventi.

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Sotto una certa ottica, l’intera pellicola potrebbe essere considerata, in chiave metaforica, propria la volontà di mettere in scena questa crescita dell’infante, come un percorso in un contesto familiare contemporaneo compromesso. Abrahamson potrebbe porre al centro del suo racconto la metafora di una maternità complicata, filtrata dall’immaginazione del bambino. Il personaggio di Joy sembra offrire una chiave di lettura sulla figura dello stereotipo femminile che ricade, suo malgrado, in ruoli sociali impostile. Old Nick incarna il ruolo paterno, oltre di patriarca, che si fa carico delle necessità e del benessere della famiglia. l bambino si trova a vivere il rapporto conflittuale tra i suoi genitori.

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Ulteriormente, la metafora potrebbe estendersi alla crescita del bambino stesso, che a causa del complicato contesto familiare in cui cresce, si trova a vivere in maniera falsata la sua fase di assimilazione e comprensione della realtà esterna alla sua casa. Sviluppando di conseguenza una percezione alterata. Un rapporto che si risolve in chiave della rottura di quel legame vincolante costituito dalla figura paterna negativa. Permettendo una liberazione dei ruoli di madre e figlio, in grado ora di compiere pienamente l’integrazione sociale con il mondo.

“Quando avevo quattro anni non sapevo che esisteva il mondo e adesso io e Ma’ ci vivremo per sempre… sempre fino a che non moriamo. Questa è una strada di una città, di un paese che si chiama America e la Terra è un pianeta tutto blu e verde che gira continuamente e io non capisco come mai non cadiamo. E poi c’è anche Cosmo e nessuno sa dove sta Cielo. Ma’ ed io abbiamo deciso che, visto che non sappiamo che cosa ci piace, dobbiamo provare tutto. Ci sono tantissime cose, qui nel Fuori. Qualche volta fa paura, ma va bene così perché io e te siamo sempre insieme.”