Kurt Russell, protagonista della pellicola, intuì già ai tempi le potenzialità negative del film. Di fatto l’opera cinematografica di John Carpenter, la quarta collaborazione tra il regista e l’attore, risultò essere un totale insuccesso finanziario al box office. Rivelandosi un flop al botteghino, incassando appena 11 milioni di dollari. Ciò nonostante, alla pellicola carpentiana venne riconosciuto, a posteriori, la validità della sua qualità stilistico-narrativa. Grosso guaio a Chinatown (stasera su Spike alle 21:30) è considerato, a pieno merito, un film cult, capace di segnare generazioni passate e future di appassionati del genere.
Originandosi come prodotto per antonomasia dell’atmosfera kitsch degli anni ’80, il film di Carpenter ha inciso notevolmente nel percorso evolutivo della storia del cinema d’azione e fantasy.
La sceneggiatura iniziale prevedeva che la vicenda raccontata fosse di matrice western, svolgendosi nell’ovest degli Stati Uniti.
In un’epoca di conquista del selvaggio da parte di cowboys e proprietari terrieri, messi a confronto con una moltitudine di emigrati cinesi, portatori di superstizioni rivelatesi reali. Per scelta dei produttori il racconto fu riscritto e ricontestualizzato in epoca odierna. Tuttavia sono chiari ed evidenti gli strascichi della versione originale della storia, con particolari riferimenti e dettagli in omaggio al cinema western e alle eroiche figure dei  cowboys e dei pistoleri. Risulta quindi evidente, inoltre, l’influsso del cinema di Howard Hawks nello stile registico di Carpenter.
La volontà di ambientare la vicenda nella Chinatown di San Francisco evidenzia, tra l’altro, l’enorme influenza esercitata dal cinema cinese e di Hong Kong, e in particolare il cinema di arti marziali, sul mercato americano. Carpenter punta alla creazione di una commistione di generi, generando una pellicola equilibrata in bilico tra il raffinato e suggestivo cinema cinese e quello americano, visivamente violento e verace. Una pellicola costantemente tesa tra il fantasy e il cinema d’azione.
Carpenter rielabora la figura dell’eroe, creando un personaggio goffo e impacciato.
Ribaltando in un certo senso gli stereotipi e le convenzioni perpetrate dalle case di produzioni hollywoodiane, disegna una sorta di antieroe un po’ sempliciotto; nonostante le sue qualità e virtù risiedano comunque nel coraggio e nel senso del dovere. Ma manca completamente di adeguatezza e prontezza all’azione.
In quest’ottica Jack Burton è la spalla del vero eroe, Wang Chi. Il quale, grazie all’aiuto dello stregone Egg Shen, riuscirà a sconfiggere l’antagonista di turno, David Lo Pan. Carpenter riabilita dunque la figura del personaggio cinese, prima ridimensionato al ruolo della spalla comica. Per questo motivo i produttori vollero a tutti i costi l’aggiunta, in sede di post-produzione, della scena iniziale.
Carpenter, tuttavia, mantiene costante un certo rigore e rispetto nella rappresentazione e messa in scena di personaggi e racconti ripresi dal folklore cinese. L’opera pone al proprio centro racconti di spiritualità appartenenti al contesto culturale della mitologia asiatica; riuscendo a generare un pacato equilibrio e raggiungendo l’obiettivo postosi dalla volontà creativa del regista.