Che l’espressione artistica più pura e incondizionata della settima arte da molti anni a questa parte venga concessa quasi esclusivamente nel circuito indipendente non è una novità.
Eldfjall, distribuito internazionalmente con il titolo Volcano, ne è un esempio perfetto. Opera prima del regista islandese Rúnar Rúnarsson, che grazie a questa e alla seguente, Passeri del 2015, si sta ritagliando notevole visibilità nella scena indie. Già dal suo esordio il regista, classe 1977, dimostra una maturità non comune nell’analisi della psiche umana e nella sobrietà d’esposizione.
Il film narra la storia di Hannes, un uomo di 67 anni abbrutito dalle vicissitudini della vita. Dopo aver svolto per molti anni una non meglio precisata mansione in una scuola superiore, è appena andato in pensione. Il suo brutto carattere si riflette nei modi scostanti con cui tende a trattare la moglie Anna, e, di rimando, nei suoi freddi rapporti coi due figli e con il nipotino. La sua essenziale bontà d’animo e l’immenso affetto verso la moglie emergono solo sporadicamente da sotto la dura corteccia.
Ma nella vita nessuna situazione è perenne.
Il fato non tarda a cambiare le carte in tavola: Anna subisce un grave arresto cardiaco, che la lascia inferma e senza facoltà di parola. Da qui Hannes tenterà il tutto per tutto per rimediare tardivamente ai propri errori coniugali, facendosi carico della moglie invalida. Decide di curarla in casa anziché affidarla ad un centro specializzato, nonostante tutto ciò sia per lui una novità e non senza il disaccordo dei figli; i quali vedono la sua scelta come un puro atto egoistico per pareggiare i conti con la propria coscienza.
Il tema della degenza e delle conseguenze che essa comporta nelle persone care attorno all’invalido è stato affrontato innumerevoli volte nel cinema, ma le varianti che questo argomento può offrire rimaneggiando gli elementi del racconto, cambiando i punti di vista e conferendo il proprio stile personale sono pressoché infinite (o quasi). In questa occasione Rúnarsson decide di farci vedere l’inevitabile declino della vita umana con gli occhi di colui che, negli anni di vigore, probabilmente non l’aveva mai apprezzata fino in fondo.
E’ uno di quei film scomodi, che in pochi hanno il coraggio di girare, e altrettanti di guardare.
Ma che allo stesso tempo propongono una visione del bello e del brutto della vita senza addolcire la pillola, appoggiandosi il meno possibile alle convenzioni che il cinema per il grande pubblico impone. Se ad esempio Alexander Payne, con Paradiso amaro, aveva girato sulla stessa tematica uno splendido family drama adatto a tutti, grazie a momenti struggenti ottimamente bilanciati con altri più leggeri, qui ci si deve abituare ad un approccio decisamente più senile e rassegnato. Si deve scendere a patti con il proprio legittimo bisogno di intrattenimento cinematografico, se si vuole far tesoro dello studio della persona offerto dal regista.
Rúnarsson non ha paura di mostrarci scene di ordinaria quotidianità, vitali per la natura del racconto, incluse scene di intimità tra personaggi in età avanzata proposte con estrema naturalezza. Allo stesso modo, dopo la fatalità, la presenza di Anna si limita esclusivamente a sofferenti gemiti di variabile intensità; che riportano alla mente gli spasmi di Harriet Andersson in Sussurri e grida di Bergman, e che nel loro realismo e nella loro esasperante ripetitività rischiano seriamente di turbare la sensibilità dello spettatore. Ma è un turbamento necessario se non si vuole incappare nell’edulcorazione e nel cliché, che il regista tanto tenacemente ripudia.
Il regista, per calarci nell’atmosfera della sua storia, opta per inquadrature statiche e dai tempi prolungati.
Predilige per le scene dialogate una fluida alternanza tra campi totali e primi piani, dimostrando grande padronanza dei meccanismi del cinema della quotidianità, oltre a un eccellente senso della proporzione estetica (che nel suo film successivo migliorerà ulteriormente). Ad esempio, nella scena in ospedale susseguente al malore di Anna, la geometria dell’inquadratura, nella quale i figli di Hannes si siedono lontani dal padre, suggerisce sottilmente la distanza emotiva tra i personaggi; costituendo una metafora logisticamente plausibile e per nulla invadente.
Ma soprattutto, il punto di forza del film è rappresentato dai lunghi, intensi primi piani sul protagonista. Ci viene trasmesso tutto il suo disagio di vivere, conseguente all’impietosa distruzione del proprio tranquillo nido familiare e delle sue uniche sicurezze affettive. Tutto attraverso la valorizzazione registica dell’eccezionale espressività dell’attore Theodór Júlíusson, spesso accentuata dalla ficcante colonna sonora caratterizzata da una grande preponderanza di archi. Perché anche nei casi di eccellenti interpretazioni in family drama hollywoodiani, queste verranno sempre funestate dal divismo di fondo dei loro attori.
Mai un’interpretazione drammatica potrà risultare efficace quanto quella fornita da un attore che racchiuda le connotazioni umane dell'”uomo qualunque”, per il semplice fattore di immedesimazione.
E’ un autentico viaggio nella psicologia di un uomo distrutto.
Un uomo che tenta di fare la cosa giusta nei confronti della persona che ama di più al mondo, costretto a sorvegliare costantemente una sua versione che nulla più possiede della figura a lui cara se non la semplice presenza fisica, con conseguenze disastrose sulla propria stabilità mentale. Il compito di giudicare, il regista lo affida esclusivamente allo spettatore, perché nella vita vera non esistono giudizi, non esistono morali, non esistono certezze. Esiste solo l’inesorabile scorrere del tempo, che spesso non ci concede neanche di elaborare gli eventi che ci manda, limitandosi perlopiù a lasciarci con l’amaro in bocca, a contemplare impotenti ciò che “avrebbe potuto essere e non è stato”.
Un film duro e straziante, di difficile reperibilità, ma che offre una storia dai toni solenni e onesti; meritevole di visione per chiunque desideri un’esperienza cinematografica lontana dai compromessi a cui Hollywood ci ha abituati. Nella prossima recensione parleremo di Passeri, secondo film di questo singolare regista islandese e conferma del suo straordinario talento nel narrare storie di persone ordinarie.