Da un gruppo come gli U2, che hanno sulle spalle quasi quarant’anni di carriera (cominciamo a sentirci vecchi), non ci si possono certo aspettare grandi sorprese oramai. E infatti Songs of Experience di grandi sorprese non ne rivela.
Abbiamo il buon vecchio rock and roll, di quello che andava prima che arrivasse questa grande ondata chiamata indie. Abbiamo quattro attempati musicisti irlandesi cresciuti a pane e blues, con la loro vena emotiva di protagonisti dell’heartland rock. Buoni riff di chitarra pompati. Un Bono Vox che canta le sue liriche struggenti. Una certa deriva compositiva alla Coldplay. mettiamo tutto questo insieme, e il risultato non è certo da buttar via.
Songs of Experience si pone fin da subito come un album ben più deciso e concreto rispetto al suo predecessore, Songs of Innocence (2014). E la concretezza si ritrova non tanto, per esempio, nella comparsata dell’immancabile Kendrick Lamar in American Soul. Nè nei toni eterei del pezzo di apertura, Love Is All We Have Left.
La concretezza emerge nei pezzi più nostalgici, quelli che possono ben far riaffiorare il ricordo di The Joshua Tree e Achtung Baby. Pezzi quali Lights of Home, Red Flag Day, e The Blackout, quest’ultimo il migliore del disco. Da non trascurare anche il primo singolo (che vi avevamo anticipato), You’re the Best Thing About Me, una bella canzone d’amore vecchio stile. Il resto del disco si regge bene, senza pesare o risultare troppo ripetitivo.
Insomma, Songs of Experience non sarà l’album dell’anno, ma rivela degli U2 tutto sommato ancora in forma, in grado di sfoggiare ancora una certa abilità compositiva, e non privi di idee. L’album piacerà sicuramente ai fan del gruppo, mentre forse non soddisferà le nuove platee. Ma certamente gli U2 sono arrivati ormai, dopo la loro carriera pluridecennale, al punto di potersene infischiare altamente.