The Bad Batch – Recensione del film su Netflix

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Ormai da un mese disponibile tra gli ampi scaffali di Netflix, l’ultimo film di Ana Lily Amirpour, The Bad Batch. 

Già regista del pregevole A Girl Walks Home Alone at Night il nuovo film trionfò alla 73esima edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, conquistando il Premio Speciale della giuria proprio lo scorso anno.

La vicenda narrata in The Bad Batch è basilare, sia per quanto riguarda l’incipit, che le sue successive diramazioni. La protagonista è Arlen (Suki Waterhouse), una ragazza che viene espulsa dai confini del Texas; venendo abbandonata al suo destino in una landa desolata popolata esclusivamente da altri esiliati, scarti della società che hanno perso la cittadinanza così come l’umanità. La giovane dovrà quindi cercare in ogni modo di sopravvivere ad una realtà infernale, che tenterà in ogni modo di farla soccombere.

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Tra i nomi facenti parte del cast, oltre alla già citata Suki Waterstone, troviamo un lanciatissimo Jason Momoa, che dimostra di saper alternare film indipendenti a grosse produzioni, Keanu Reeves, Giovanni Ribisi ed un irriconoscibile Jim Carrey in un piccolo ruolo.

L’apocalisse secondo Amirpour

Da quanto viene raccontata nella breve premessa iniziale, il nuovo lavoro di Ana Lily Amirpour sembrerebbe un semplice survival movie in salsa apocalittica. Ricalca le note ambientazioni dell’universo di Mad Max, ma il prodotto finale non potrebbe essere più lontano dall’esempio citato.

La scelta della Amirpour non è quella di virare su un grandioso spettacolo visivo e d’intrattenimento, ma di trattare questa desolazione in modo estremamente minimale. Una desuetudine, di cui è partecipe una parte del genere umano, sprigionata nella messa in scena tutta la sua crudezza devastante.

La violenza, infatti, non viene minimamente edulcorata e colpisce l’occhio del pubblico, come è giusto che sia. Le manifestazioni di violenza presenti nel corso del film, infatti, non sono prive di significato o fini a sé stesse, ma, al contrario, introducono lo spettatore in un microcosmo a lui sconosciuto.

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La regista, tuttavia, preferisce non abusare dell’elemento gore; preferisce centellinarlo in piccole esplosioni di splatter allo staro puro, mantenendo sempre un certo bilanciamento con il resto del racconto.

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La vera aggressività alla quale la Amirpour non sembra imporre alcuna limitazione è quella visiva. Le immagini travolgono lo spettatore con una prepotenza a dir poco inaudita. Tutto merito di un lavoro certosino, per quanto riguarda la fotografia, impuntato sulla ricerca della luce più adatta. Ricorrendo all’utilizzo di numerosi filtri ed illuminazioni radicalmente differenti, si è potuta sottolineare l’estrema varietà antropologica e ambientale che ospita l’impianto narrativo. Si assiste quindi al ritorno delle luci al neon, utilizzate ormai a iosa per la loro economicità, che in questo caso rivestono una funzione di soffocamento tanto per il pubblico quanto per la protagonista.  Arlen, pur appartenendo ad una realtà pressoché incontaminata nella sua enorme vastità, si sente ingabbiata.

Un ritratto devastante sull’America odierna

Probabilmente la maggior parte delle critiche ricevute a Venezia e altrove (fin troppo numerose) sono dovute proprio al prorompente apparato visivo; lasciando che la pellicola venisse considerata come un semplice esercizio di stile. Un film considerato estremamente curato fino ai minimi dettagli nella sua realizzazione, ma privo di un qualsiasi contenuto dietro questa esuberante messa in scena.

Appare poco dopo l’inizio della visione, che la suddetta considerazione sia un grossolano errore di calcolo. Il film non è altro che una gigantesca metafora, e possibile evoluzione, dello strapotere raggiunto da Donald Trump. A partire dal concept iniziale dell’esilio oltre la frontiera del Texas, che non può che richiamare il muro di delimitazione tra gli Stati Uniti d’America e il Messico, ideato proprio dall’attuale presidente.

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Il difetto per il quale si può colpevolizzare The Bad Batch è semplicemente la mancanza di quel pizzico di coraggio e inventiva in più.

Una lacuna che, se colmata, avrebbe senza alcun dubbio giovato nell’imbastire questa frecciatina. In questo modo rimane vittima della sua essenza, senza diventare una critica feroce, che avrebbe probabilmente raccolto più consensi.

Di materiale su cui si può ragionare per mesi all’interno di The Bad Batch, se ne trova però in abbondanza. Nel voler rappresentare una versione distopica dell’attualità, si è andati pericolosamente vicino ad una raffigurazione veritiera del mondo odierno; quasi si trattasse di un vero e proprio incubo premonitore. Una divisione sempre più netta dei diversi strati sociali, presente anche all’interno della “comunità” degli esiliati e dei reietti.

Vanno inoltre lodati i costumi e il trucco, tra i più notevoli visti in quest’annata cinematografica giunta quasi al suo termine. Artifici in grado di trasformare letteralmente icone ormai impresse nell’immaginario collettivo come i già citati Keanu Reeves e Jim Carrey. Il primo, leggermente imbolsito e reso ancora più pallido, sembra quasi incarnare un ideale di purezza d’animo, in forte contrasto con i personaggi a lui circostanti; come quello interpretato da Carrey, che regala al suo pubblico, anche se per pochi minuti, un ritratto quasi toccante di un barbone analfabeta ai tempi dell’Apocalisse.

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Tirando le somme, The Bad Batch è un’opera complessa, che comprensibilmente non ha catturato il favore di tutti, ma con parecchie chiavi di lettura interessanti. Un’analisi leggermente più approfondita di quest’ultime, avrebbe decisamente alzato il livello del prodotto finale, che resta comunque vivamente consigliato.