Un ragazzo osserva qualcosa, in lontananza. È luminosa, splendida, bellissima, accecante. La vuole raggiungere, la vuole far sua, e sente di avere la forza, la spregiudicatezza, lo spietato coraggio per poterla ottenere. Resta lì, sopra quel cornicione. A fissarla rapito, nell’attesa di raggiungerla. Pensando a come possa mai raggiungerla.
Sembra il vero leitmotiv della narrazione – e in fondo lo è, come si vedrà presto – e ne rappresenta al contempo un incipit ideale, collegandosi all’incipit vero e proprio, altrettanto emblematico e a cui si collega a doppio filo.
“Io non voglio essere un prodotto del mio ambiente. Voglio che il mio ambiente sia un mio prodotto. Anni fa avevamo la Chiesa. Era solo un modo per dire che eravamo uniti.”
Nel frattempo, scene d’archivio di disordini, di scontri razziali, di scontri e basta. Stacco, un’intervista ad un afroamericano. Come se continuasse l’incipit. Come se gli rispondesse.
“Ma ora non so, chi ci capisce niente? Io… Ti mette l’odio nel cuore.”
In realtà, qualcos’altro precede l’incipit: Boston, alcuni anni fa. Inizia così, con una fiabesca evocazione globale, al di là del tempo, come se volesse dire: Ciò che verrà raccontato qui si svolge in un tempo imprecisato. Forse, perché è ancora in corso.
Sulle orme di Melville e Faulkner, e parallelamente a McCarthy, sono il mistero del Male e della violenza, della sopravvivenza, dell’istinto di conservazione e prevaricazione, le grandi ossessioni di Scorsese. Traspaiono e talvolta traboccano quasi in ogni sua opera, ma mai avevano divorato la scena come qui, in quello che è il suo film più tetro, brutale, nichilista, apocalittico, assolutamente privo di speranza. È risaputo quanto una traduzione infelice possa influire sulla potenza evocativa di un titolo – ne sono un esempio Eternal Sunshine of the Spotless Mind o, a proposito di apocalissi, There Will Be Blood – e ciò si ripresenta anche qui. Il bene e il male: un sottotitolo traditore, semplificatore ai limiti dell’inganno, come quelli di cui è impregnata la narrazione.
Ma accenniamo quest’ultima.
Boston, città cardine ed emblematica della storia americana. Il quartiere irlandese è in mano al boss Frank Costello (l’autore dell’incipit vero e proprio, un Jack Nicholson diabolico, mefistofelico, eppure straordinariamente umano come si spiegherà a breve). Con mano spietata e crudele gestisce quel regno attraverso una corte di spostati, mezzosangue, reietti armati fino ai denti che – al di là delle intimidazioni di circostanza e del rispetto dovuto a un re – sembra trattare più come figli che come sottoposti.
Parallelamente, la polizia indaga su di lui, e riesce a infiltrare un agente tra le sue fila: Billy Costigan (un Leonardo DiCaprio ormai attore vero, in un personaggio che è un fascio di psicosi e fragilità che si sforza di sopprimere per continuare a esistere, a resistere in un mondo dove solo gli spietati sopravvivono). Ma non sanno che Costello ha da tempo, a sua volta, inserito una spia all’interno del commissariato: Colin Sullivan (Matt Damon), pupillo di Costello, che considera un padre putativo. È lui il protagonista dell’incipit ideale sopracitato.
Costello l’ha istruito fin da bambino sul credere nel duro lavoro, nella fiducia nei propri mezzi, sul credere che non esistano limiti insuperabili. Un’educazione tipicamente americana, in fondo. Ne emerge una persona ambiziosa, affamata in modo quasi animalesco, come lo stesso Costello. Una bestia feroce, ma inconsapevole che, nel quadro generale delle cose, sia nulla più che un topo. Mettiamo in sospeso quest’argomento.
Oltre alla violenza e al suo legame con la sopravvivenza, uno dei temi principali del film, preponderante quanto il primo e ad esso sottilmente collegato, è la sessualità.
La sceneggiatura è infarcita di commenti sessuali, di allusioni, di rimandi, di minacce a sfondo sessuale. Il sesso qui non viene inteso in modo umano, ma nella sua componente più bestiale. In un mondo efferato e sanguinoso, dove tutti sono al contempo prede e predatori, l’ostentazione della sessualità e della capacità sessuale è un monito della propria forza e virilità, come un ruggito o un ululato. O forse più simili agli abbai di un cane di piccola taglia, e dunque spesso fallaci, come testimoniano la semi-impotenza di Sullivan (addirittura una sua possibile omosessualità), o la probabile sterilità di Costello (da cui l’atteggiamento paterno mostrato nei confronti dei suoi uomini, i suoi figli ideali).
C’è solo un episodio all’interno del film dove il sesso non è visto in tal senso: la scena tra Leonardo DiCaprio e Vera Farmiga, sulle note di Comfortably Numb dei Pink Floyd – mai canzone poteva essere più azzeccata nell’esprimere lo stato di malessere e alienazione che Billy Costigan sta vivendo.
Nel ritmo veloce e forsennato della narrazione, nella violenza feroce e senza scampo, nella sottile linea divisoria tra sistema criminale e sociopolitico (visti perfidamente come un continuo, in cui l’uno si rispecchia nell’altro, come i due protagonisti), Billy Costigan appare come un condannato a vivere, in un mondo che sente non appartenergli. Pur avendone possibilmente le stesse capacità, non ha l’ambizione di Sullivan o di Costello, e forse per questo Costello arriverà a considerarlo tra i suoi uomini più fidati. Sembra l’unico tra i personaggi mostrati che si trascina per il mondo, senza un fine o uno scopo se non quello di restarci ancorato. Una ginestra, che senza viltà né folle superbia accetta e sopporta con dignità «il mal che le fu dato in sorte». Fino alla soluzione finale, l’unica, già annunciata nel titolo.
Non è il bene e il male il vero sottotitolo del film: è il Male – visto come istinto di conservazione, di egoismo e di dominio – l’unico elemento presente, dominatore e trionfatore assoluto, senza scampo. The Departed sta per defunti, cari estinti. Nessuno o quasi sopravvive in due ore e mezza di mattanza senza senso – senza senso, se non quello di auto-affermarsi nel mondo, di provare a renderlo un proprio prodotto. Un istinto umano dapprima messo a bada, frenato dalla morale cristiana (dalla morale dei servi e degli schiavi, per dirla alla Nietzsche), e ora assolutamente a piede libero, senza alcun freno inibitore.
“La Chiesa vuole che tu stia al tuo posto: in ginocchio, in piedi, in ginocchio, in piedi. Se ti piacciono queste cose non so proprio che fare per te. Un uomo si fa strada da solo. Nessuno ti regala niente. Te lo devi prendere.”
Oltre a Boston, la stessa via cardine del film, dove si ritrova la banda di Costello, ha un significato simbolico: Hell Street. La strada dell’Inferno è in realtà la strada per l’Inferno.
La maniacalità di Scorsese nella lavorazione dei suoi film è ben nota: ogni scena, ogni inquadratura ha un senso nel delineare l’intreccio, le tematiche, la psicologia dell’uno o dell’altro personaggio.
E così accade anche attraverso la scelta della musica. Non solo Comfortably Numb, ma anche Gimme Shelter, che incalza subito dopo l’evocazione della chiesa che univa nell’incipit del film. Una canzone che Mick Jagger ha definito così: “Beh, era un periodo molto, molto violento. La guerra del Vietnam. Violenza dappertutto, scontri, incendi, saccheggi e disordini. E il Vietnam non era una guerra come la conoscevamo in senso convenzionale… Gimme Shelter è quel tipo di canzone da “fine del mondo”, davvero. È l’apocalisse.“Un’immagine piuttosto profetica su quanto verrà mostrato.
E così anche il vibrante sestetto Chi mi frena in tal momento?, dalla Lucia di Lammermoor di Donizzetti, che esalta i momenti di tensione all’interno del film, quasi offrendo delle piccole e intense pause speculative in un mare di frenesia. O anche I’m Shipping Up To Boston, il tema più ricorrente, che al contrario è funzionale a rendere ancor più frenetico e incalzante il ritmo già forsennato della narrazione. E poi, forse tra le più potenti ed evocative fra tutte all’interno del film, Sweet Dreams di Roy Buchanan.
Si ritorni adesso all’incipit, quello ideale, e all’argomento lasciato in sospeso.
Torniamo al topo che si ritiene una bestia forte e feroce. La maniacalità di Scorsese ci concede questi fotogrammi, per pochi secondi:
Costello sta disegnando questo schizzo, su cui poi sputerà del vino, e a cui seguirà un dialogo tra lui e Costigan sulla natura del potere e sull’onere della corona. Su ciò che lo spinge ad andare ancora avanti nella sua vita criminale, pur avendo potenzialmente già ottenuto tutto. Qualcosa che sotto questo aspetto lo differenzia profondamente dal suo figlio adottivo Sullivan. Costello infatti risponderà:“Perché mi piace”.
Una profonda onestà, maturata forse col tempo e con l’età, di un uomo che raggiunge i suoi traguardi e ne vede la vera faccia, il vuoto sostanziale e il prezzo esoso. Qui Costello dice: “Non faccio questo perché credo di realizzarmi in tal modo: lo faccio perché mipiace“.
Una soggettivazione dell’ambizione che, invece, per Sullivan risulta essere oggettiva. Il suo sguardo ricorrente verso la Massachusetts State House, allegoria del potere, racchiude in sé un’ambizione in qualche modo metafisica.Non ristretta a una componente circostanziale e tangibile, ma trascendente e assoluta. Una meta capace di essere la realizzazione di tutta una vita e attorno a cui i topi si ammassano, instancabilmente, cercando di raggiungerla, senza osservarne il vero volto, come fatto da Costello.
La meta più ambita, l’illuminazione, la realizzazione di tutta una vita, resterà sempre irraggiungibile, proprio per la sua natura sfuggente; ai topi che bazzicano nel mondo sublunare non resta altro che scannarsi tra di loro nel vano tentativo di raggiungerla. Desiderarla. Sognarla.