Hot Rats di Frank Zappa è come una tela astratta di Jackson Pollock: apparentemente sconclusionata e caotica, in realtà frutto di tecnica e competenza. Abbiamo già iniziato a parlarvi (in questo articolo) dell’arte del geniale musicista.
Quest’album, il primo propriamente “da solista” di Zappa, comprende lunghe composizioni strumentali che in realtà sono solo tappeti sonorisui quali i vari solisti possonodimostrare le proprie capacità.
Si fa riferimento ovviamente allo stesso Zappa e alla sua chitarra, ma anche al violinista Jean-Luc Ponty, al tastierista polistrumentista Ian Underwood, al bassista Shuggie Otis ed altri ancora.
L’album oscilla tra rock progressivo e jazz fusion con tocchi di musica sperimentale, risolvendosi in una serie di jam sessions, in realtà tutte accuratamente arrangiate.
Fa eccezione la seconda traccia, Willie the Pimp, che vede la partecipazione di Captain Beefheart come vocalist e si concentra su un sound più prettamente rock.
Weather Report – Heavy Weather
Heavy Weather segna il punto più alto e forse anche la fine della fusion. L’anno in cui esce, il 1977, è l’anno in cui comincia ad affermarsi una diversa generazione di musicisti, che porteranno influenze e stili diversi.
I Weather Report sono in parte proiettati verso queste influenze, con alcuni sottili inserimenti di sintetizzatori, ritmi cubani (Rumba Mamà parla da sola) e una sensibilità più commerciale.
Le prime tre canzoni del disco percorrono questa nuova via. Teen Town, in cui il protagonista assoluto è il basso di Jaco Pastorius. A Remark You Made, pezzo in perfetto stile smooth jazz. E soprattutto Birdland, forse in assoluto la più famosa canzone fusion di sempre.
Non mancano altresì pezzi dal carattere più tradizionale, come Palladium e The Juggler, come non mancano l’esperienza e la saggezza interpretativa di Joe Zawinul e Wayne Shorter. Insomma, Heavy Weather è un importante crocevia di stili e influenze, dove nuovo e antico si incontrano, soprattutto, lo fanno con buoni risultati.
Herbie Hancock – Head Hunters
Head Hunters di Herbie Hancock è forse il più famoso e celebre album del tastierista, infuso com’è di influenze funk alla Sly and the Family Stone, mischiate con gli insegnamenti del vecchio maestro Miles Davis, e con i dogmi del classico jazz modale.
Già la prima, celebre traccia, Chameleon, dice tutto: un riff di basso ossessivo e meccanico attorno al quale viene costruita l’intera canzone.
La musica di Herbie Hancock è qui piuttosto pop, concede all’ascoltatore delle ripetizioni facilmente rintracciabili, e lo fa con sonorità anche ballabili. Così anche le altre tracce, e specie Watermelon Man, già registrata da Hancock nel 1962 ma qui completamente riarrangiata.
Bitches Brew è l’album fusion definitivo, e forse il disco più caldo e intense mai registrato. Basti citare i nomi che compaiono in quest’album: Wayne Shorter, John McLaughlin, Chick Corea, Joe Zawinul, Dave Holland, Jack DeJohnette, Bennie Maupin, Larry Young, Billy Cobham.
Chi conosce un poco il mondo del jazz sa che questi erano i migliori musicisti del genere all’epoca, e non è un caso che gran parte di essi emigreranno poi a realizzare metà dei grandi album presenti in questa classifica. Sotto Miles infatti si improvvisa, ma più ancora si va alla ricerca dello spirito della musica, al di là di tecnica, perfezione e capriccio.
I musicisti suonano tutti insieme, creando un amalgama forse raggiunto solo in quel Kind of Blue che lo stesso Miles aveva sfornato undici anni prima (e del quale vi abbiamo parlato in questo articolo).
C’è sempre spazio per delle esibizioni soliste, ma l’insieme suona sempre omogeneo, in completa simbiosi creativa e mistica. E mistiche sono le sei tracce che compongono l’album, lunghe esplorazioni senza un fine che non sia quello dell’esplorazione interiore tramite la musica.