L’opera terza di Quentin Tarantino è un film che spesso tende a dividere il pubblico.
Un film che solitamente o piace o raramente si farà preferire ad altre pellicole del regista; portando non di rado a sentenze come: “Hmm, sinceramente mi aspettavo di meglio, non sembra neanche di Tarantino, di sicuro con Pulp Fiction e Kill Bill non c’è storia”. Parliamo di Jackie Brown, unico film di Tarantino ad essere liberamente tratto da una fonte letteraria, il romanzo Punch al rum di Elmore Leonard, al quale il regista apporta alcuni significativi cambiamenti. In primis l’etnia della protagonista e l’ambientazione, da Miami a Los Angeles.
Partiamo subito dicendo che Jackie Brown rappresenta, oltre ogni ragionevole dubbio, il titolo più atipico dell’intera filmografia tarantiniana, dato che è possibile identificarlo paradossalmente sia come il meno personale che il più personale del regista. È il meno personale perché sono assenti molte delle caratteristiche che rendono unici gli altri suoi film: non ci sono situazioni ai limiti del paradossale o personaggi volutamente eccessivi, c’è pochissimo sangue e quasi nessun omicidio è mostrato in primo piano; per questo molti fan, ad una prima visione, potrebbero rimanerne delusi.
Ed è il più personale perché si tratta dell’unico caso in cui è possibile vedere Tarantino cimentarsi con una storia dai toni talmente intimi e delicati, che riguardata a distanza di anni viene da chiedersi se con la sua unica incursione in questo genere il regista abbia davvero detto tutto quel che aveva da dire a riguardo. In definitiva, si tratta a tutti gli effetti del film di Tarantino che punta meno sul divertissement.
E’ innanzitutto un film che va seguito attentamente in ogni suo passaggio dando importanza ad ogni elemento della sceneggiatura, al fine di comprendere a fondo chi siano i personaggi, cosa rappresentano gli uni per gli altri e quali siano i loro obiettivi finali. E’ inoltre altamente consigliabile visionarlo più di una volta, non per la sua complessità, ma per poterlo meglio apprezzare.
Ma come rispondere riassuntivamente alla domanda “Di cosa parla Jackie Brown?”? Jackie Brown è la storia di una donna completamente sola al mondo, vittima del sistema e svantaggiata dal suo genere e dalla sua etnia. Ciononostante capace di usare tutta la propria astuzia per tirarsi fuori da una situazione disperata. E’ un sottilissimo scontro di intelletti, un noir in cui ogni ingranaggio è inserito nel meccanismo con millimetrica precisione. E’, con ogni probabilità, lo studio del personaggio più intimista dell’intera filmografia tarantiniana; caratterizzato da un impianto insolitamente realistico dei personaggi, i cui tratti distintivi sono minuziosamente tessuti attorno ad essi senza il sostegno di dialoghi ad effetto ed escamotage centralizzanti.
La protagonista rappresenta la massima incarnazione della forza femminile.
A darle anima e volto è la rediviva Pam Grier, attrice di film blaxploitation sapientemente ripescata da Tarantino, notoriamente un grande estimatore del genere. Jackie sarà sottoposta ad ogni tipo di insidie prima di raggiungere la zona sicura e dovrà usare tutte le sue risorse per uscire indenne da ognuna di esse. Risorse che ha maturato vivendo da donna afroamericana e corriera del traffico di armi nella comunità criminale di Compton; dovendo contare sempre e solo su sé stessa. Jackie è una donna cinica, disillusa, perspicace, indipendente e manipolatrice, che dovrà calcolare ogni singola mossa per far sì che il suo piano funzioni. Un piano al cui confronto quello di Keyser Soze sembra Mr. Bean che tenta di guidare la macchina da sopra il tettuccio.
Tra i vari personaggi, la minaccia principale del film proviene dal suo “datore di lavoro” Ordell Robbie. Personaggio cucito su misura da Tarantino addosso a Samuel L. Jackson, dando vita ad uno dei suoi antagonisti più originali. Ordell è un elemento estremamente pericoloso, privo di scrupoli e che non si fermerà davanti a niente e nessuno. Tanto meno davanti testimoni scomodi che rischiano di collaborare coi federali alle sue calcagna. Un astuto calcolatore, che riesce a mentire con invidiabile naturalezza pur di ottenere ciò che vuole; ma sottovaluta il fatto che al mondo possa esserci qualcuno più furbo di lui. Forse anche più vicino di quanto pensi.
Ma la vera sorpresa del film è Robert Forster, attore che in tutta la sua carriera ha sempre ricoperto il ruolo del duro per eccellenza. Ecco perché la sua interpretazione del garante di cauzioni Max Cherry ha dello straordinario. Max rappresenta l’unica fonte di onestà in quel mondo di depravazione, e costituisce per la protagonista, di cui si invaghisce teneramente, l’unica faccia amica in mezzo ad un branco di lupi. Pur non potendole prestare aiuto, oltre alle sue competenze, si rivelerà per lei un elemento fondamentale. Jackie troverà infatti il modo di includere anche lui nell’equazione, facendo sì che il sincero affetto di Max vada a suo vantaggio, in un modo o nell’altro.
Un elemento che troppo spesso si tende a sottovalutare, probabilmente per la rilevanza del personaggio agli antipodi rispetto gli (ormai ex) standard dell’attore, è che questo film contiene una delle ultime grandi interpretazioni di Robert De Niro. Louis Gara è il taciturno e passivo collaboratore di Ordell appena uscito di galera. Uomo dalla personalità latente e difficilmente identificabile per gran parte del film. La follia del suo personaggio, messo a contatto col fattore esplosivo rappresentato da Melanie, la pigra e frivola convivente di Ordell, si rivelerà in tutto il suo splendore nella scena più iconica del film, al culmine di una dissacrante escalation. A completare il quadro c’è l’ambizioso agente federale Ray Nicolette, interpretato da Michael Keaton. Quest’ultimo instaurerà con Jackie un delicato rapporto di “do ut des” per arrivare ad incastrare Ordell.
La narrazione del film è semplicemente sontuosa.
La portata del pericolo che grava sulla testa di Jackie è nitida e distinguibile in ogni momento del racconto; generando nello spettatore la curiosità costante su quali saranno le sue mosse successive per uscirne viva. Così come sono cristalline sin dall’inizio le motivazioni dell’antagonista, che si distingue immediatamente per la sua determinazione, inclemenza e capacità di inganno. Tarantino mette in atto degli eleganti espedienti narrativi, uno su tutti quello di un’importante scena alla fine del secondo atto mostrata da tre punti di vista differenti.
Sebbene il regista abbia dichiarato di aver voluto trasporre fedelmente l’atmosfera e l’umorismo del libro, il suo tocco è perfettamente riconoscibile in ogni passaggio della storia. L’umorismo, servito in una dose nettamente più calibrata del solito, è forse anche più efficace e ricercato che in altri suoi film; facendo enorme affidamento alla caratterizzazione dei personaggi. Per concludere, a detta di chi scrive il rapporto che va a crearsi tra la protagonista e il personaggio di Max sottende un romanticismo latente superiore a quello presente in moltissimi film di impianto puramente sentimentale.
Colonna sonora totale, ricca di brani funk, R&B e soul che accompagnano con immensa raffinatezza le immagini e gli eventi del film. Padroneggiata su tutte da Across 110th Street di Bobby Wormick che apre e chiude il film e ne richiama i temi principali. Pezzo prelevato a sua volta da un film blaxploitation omonimo del 1972, come Tarantino è solito fare nella scelta dei brani musicali.
Questo è Jackie Brown, un film semplicemente meraviglioso che vive della sua atmosfera, della scrittura dei personaggi e dell’orchestrazione perfetta della sua trama. E’ indubbiamente il meno accessibile del regista, ma possiede la magia necessaria ad incantare uno spettatore libero da pregiudizi. Con una piena conoscenza della differenziazione tra i generi, sarà facile inserirlo tra i lavori più emozionanti dell’amato regista californiano.
CONSIGLIATO IN ITALIANO?
No. Ci sono dei casi in cui, nonostante la presenza di doppiatori di tutto rispetto, il doppiaggio non riesce semplicemente a replicare lo spirito e le atmosfere del film. Molto probabilmente questo è dovuto alla natura dei dialoghi praticamente impossibile da scindere dalla sua componente idiomatica, caratterizzata da un uso massiccio di slang e cadenze da ghetto afroamericano. In particolare, le tonalità suadenti di Luca Ward che altrove si incollano bene a Samuel L. Jackson, come in Pulp Fiction, aderiscono invece scarsamente al personaggio di Ordell Robbie, costantemente impostato su tonalità acute e malavitose, proponendone una versione troppo ripulita.
Inoltre l’identità anagrafica di alcuni personaggi viene stravolta dal doppiaggio.Su tutti, Massimo Corvo è una voce decisamente troppo giovanile per Robert Forster e il suo personaggio. Non è un doppiaggio brutto da ascoltare, è semplicemente noioso nel suo insieme, non rendendo giustizia alle interpretazioni degli attori. Questo riferito al doppiaggio del 1997, mentre quello eseguito per Netflix nel 2017è semplicemente aberrante, sconsigliabile con ogni criterio di valutazione umana. Vedere il film con quel doppiaggio equivale a non vederlo. In compenso su Netflix è presente anche un’ottima traccia sottotitoli; consigliata.