“Beasts of No Nation” è senza dubbio uno dei film più interessanti prodotti e distribuiti da Netflix. Uscito nel 2015, debutta in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, dopo vince il Premio Marcello Mastroianni, assegnato al miglior attore emergente (Abraham Attah). Alla regia troviamo quel Cary Joji Fukunaga universalmente acclamato dopo aver diretto la prima stagione di “True Detective“.
Il film racconta la storia di Agu, un bambino africano che si trova a dover affrontare una guerra nel suo paese. La sua famiglia viene catturata e giustiziata, ma lui riesce a salvarsi fuggendo nella foresta. Verrà trovato da un gruppo di ribelli, che lo costringerà a lottare per la loro causa, facendolo così diventare un bambino soldato. Il comandante del plotone (Idris Elba) lo prenderà sotto la sua egidia, salvandolo dalla legge della giungla. È il primo passo verso un destino amaro, che gli strapperà l’infanzia e segnerà per sempre la sua vita.
Acclamato da pubblico e critica, “Beasts of No Nation” segna un tentativo da parte di Netflix di avvicinarsi ad un prodotto cinematografico di stampo tradizionale. Oltre ad aver concorso a Venezia, è stato infatti proiettato nei cinema americani nonostante il tentativo di boicottaggio di alcune grandi catene di cinema statunitensi.
Quello che sorprende di più di questa pellicola è la crudezza e la freddezza con cui ci viene raccontata la storia: nessuno può salvarsi dalla furia della guerra, nemmeno i bambini. Fukunaga dirige ottimamente i suoi attori (Idris Elba vincerà anche un SAG per il miglior attore non protagonista) e ci racconta una storia necessaria, per mostrare al mondo, una volta per tutte, il grande dramma sociale tutto africano dei bambini soldato e delle guerre per il potere di oggi in Africa che, a conti fatti, finiscono soltanto per distruggere le tranquille vite della popolazione locale.
(a cura di Fabio Menel)
6) House of Cards – Serie Tv
Dopo l’Arte della Guerra, tra i manuali d’utilizzo delle forme di potere c’è House of Cards. Che lo si legga o lo si guardi, si imparano sempre le stesse lezioni. Frank Underwood è un politico assatanato di potere, che farebbe di tutto per guadagnarsi lo spazio vitale necessario ai propri ideali. È l’incarnazione del dittatore moderno, che utilizza la democrazia come strumento dato al popolo per opprimersi da solo, senza mai indugiare sulle scelte più infime da prendere per “il bene della nazione”. Cosa nella quale Underwood, o megli GLI Underwood, alla fine forse credono. Anche se quella nazione, sognata dal Presidente e dalla First Lady, porta il loro stesso nome.
L’adattamento di Beau Willimon per Netflix ha catapultato il pubblico in una ricostruzione perfettamente simmetrica, passionale, ideologica e assassina di cosa sia la vita politica e l’utilizzo del potere. Si capisce, meglio che nei libri di Dobbs, quanto sia la mera rappresentazione del Darwinismo, inteso come supremazia della specie più adatta a sopportare i cambiamenti, e nel caso degli Underwood, più inclini a scaturirli.
La serie parla di una catena alimentare capeggiata da un uomo proveniente dal profondo South Carolina, da una famiglia venuta su con la coltivazione delle pesche e gli accordi col KKK, che abituerà FU a quello spirito di disadattamento tipico del personaggio, il quale odia e disprezza le debolezze delle proprie origini, tanto da trarne una forza bruta per togliere di mezzo chiunque gli si trovi davanti.
Tutti, tranne (fino ad un certo punto) sua moglie, Claire Underwood. Unico personaggio la quale non si capisce mai su quale filo corra la propria morale, se dalla parte del potere per questioni di scelte portate avanti ad oltranza, a discapito di ciò che veramente le sta a cuore, o se sia davvero l’unico personaggio peggio del marito. Tra il leone e la leonessa c’è l’intesa, ma è basata sul tipico rispetto reciproco che c’è tra nemici. E la cosa infatti non tarda a saltar fuori, quando messa da parte la politica per l’economia privata, FU si troverà costretto a dipendere dalla grazia concessagli da Claire, primo presidente donna degli USA, ma gli verrà negata, per spirito di supremazia.
Dopo le voci su un arresto della serie in seguito alla vicenda Spacey, sembra che invece la produzione proseguirà, tuttavia l’attore è stato licenziato da Netflix e quindi non sarà più parte del progetto.
House of Cards è l’ascesa al potere di un Majority Whip, tradito dal neo presidente eletto Gareth Walker, il quale gli promise la Segreteria degli Esteri dopo il grande aiuto fornito da Underwood in campagna elettorale, ma che gli concesse solo di restare nella sua carica attuale. Da lì ottiene la presidenza, prima per sé stesso, poi per la moglie, e alla fine della quinta stagione, a causa di uno scandalo che sembra ricalcare il Watergate, pianifica l’entrata nel settore privato per manovrare l’economia interna del Paese.
Tutto questo, sfruttando i capisaldi del manuale del potere secondo FU: il potere è autodeterminazione; il potere non è (solo) danaro; il sesso è potere; i nemici non sono ostacoli, ma risorse; tratta gli alleati come tratti i tuoi ideali: cambiali appena necessario, ma finché ti servono, abbi per loro il massimo rispetto.
Definire quest’opera è difficile, e vengono in mente parecchi termini. Machiavellico è il primo concetto a cui si fa riferimento pensando ad House of Cards, ma non basta. L’opera in questione è la più accurata guida dettagliata sull’utilizzo del potere che si possa trovare in circolazione, ma non è un semplice manuale. Non ci sono capitoli, ci sono personaggi, c’è una regia simmetrica al di fuori della quale i vari registi non escono mai, perché la rappresentazione della crudeltà, e del potere appunto, deve essere un asse immobile girato dal lato del personaggio, collocato in una perfetta scenografia fatta di colonne, tende, muri portanti e mobili sempre al posto giusto.
Come le scelte di Frank Underwood, che sin dalla prima stagione ci interpella costantemente, guarda in camera, o per parlarci o per lanciare sguardi d’intesa con lo spettarore, che ansima ad ogni perla di cinismo lanciata contro oppositori o situazioni, come dei mantra. E noi non possiamo far altro che odiare a morte il politico, ed amare alla follia l’uomo. One Nation: Underwood.
(a cura di Francesco Paolo Lepore)
5) Into the Inferno – Documentario
Bellissimo documentario del regista bavarese Werner Herzog, qui impegnato a mostrarci la sua eterna ossessione per i vulcani. Herzog li filma con enorme passione, aiutato da Clive Oppenheimer, uno stravagante vulcanologo dell’Università di Cambridge con il quale aveva precedentemente lavorato con il documentario “Incontri alla fine del mondo“. I due assieme viaggiano per il mondo studiando i vulcani e i popoli che vivovo all’ombra di essi, dall’Indonesia all’Islanda e dalla Corea del Nord all’Etiopia, tra la culla della civiltà e i paesi più “isolati” del mondo. Ad ogni tappa, più che dal punto di vista scientifico ci viene spiegata l’importanza culturale e spirituale dei vulcani per i popoli di queste regioni, i quali dimostrano di temerli e rispettarli profondamente anche a causa di credenze spirituali, perché “la lava esprime la rabbia dei diavoli” o perchè influenzati dalla propaganda governativa di regimi totalitari. Le immagini delle eruzioni sono impressionanti e allo stesso tempo spaventose, tra fiumi di lava e laghi di magma incandescente, Herzog trova ed analizza queste forze considerate sia benevoli che distruttive e le utilizza per esplorare questioni più profonde, “Sono qualcosa di diverso. È bene che esistano. E che il suolo su cui camminiamo non sia stabile”, ricordandoci che ancora ad oggi con tutto il progresso tecnologico raggiunto siamo ancora piccoli e inermi contro le immense forze della natura.