A distanza di tre anni dalla sua uscita, la Scimmia vi propone oggi la sua recensione sulla serie tv che le è rimasta nel cuore. La prima stagione di True Detective è stata la serie più acclamata del 2014 e un viaggio noir tra nichilismo e le paludi dell’animo umano.
I think human consciousness is a tragic misstep in evolution. We became too self-aware. Nature created an aspect of nature separate from itself. We are creatures that should not exist by natural law. We are things that labor under the illusion of having a self, a secretion of sensory experience and feeling programmed with total assurance that we are each somebody, when in fact everybody’s nobody.
Ecco Rust Cohle.
Nella Lousiana del 1995 la scomparsa di diverse donne e bambini, su cui pende l’oscuro sospetto dei riti satanici, avvia le indagini della coppia di detective Rust Cohle (Matthew McConaughey) e Martin Hart (Woody Harrelson). La vicenda viene narrata in forma di flashbacks dai due nel 2012, quando il caso viene riaperto.
True Detective è una serie noir prodotta dalla HBO e nata dalla mente di Nic Pizzolatto, romanziere sottovalutatissimo, che ha scritto qualcosa come 550 pagine di sceneggiatura in 3 mesi, e dal regista Cary Joji Fukunaga (Jane Eyre).
È una serie antologica: 8 episodi per stagione – più un lungo film che una breve serie, con cambi di personaggi e ambientazione ad ogni stagione.
Nella prima stagione, un plauso va ai due attori principali, qui in stato di grazia. Da quando ha abbandonato i ruoli da belloccio, Matthew McConaughey sembra inarrestabile e insaziabile di premi e non si contenta più neppure dell’Oscar come migliore attore per Dallas Buyers Club, ma vuole un pezzo di torta anche dalla tv.
Woody Harrelson era già noto per La sottile linea rossa di Malick, Natural Born Killers e Larry Flynt-Oltre lo scandalo, che gli valse la candidatura agli Oscar. In TD la sua interpretazione invece si sposa perfettamente con quella del collega, che pure ideologicamente ne rappresenta l’opposto: vediamo allora chi sono questi detective.
Il nichilista e l’uomo medio. Generalmente i film noir hanno la caratteristica di porre il forte contrasto tra bene e male, bianco e nero, ma questo è vero solo parzialmente in TD. Rust e Marty non sono così nettamente bianchi e ognuno è l’opposto di ciò che sembra: da una parte un Zarathustra che snocciola perle esistenziali anziché convenevoli, un pessimista, visionario e misantropo filosofo; l’altro è umano, troppo umano, con una vita apparentemente felice, che cela il caos bevendolo, bottiglia dopo bottiglia, o seducendolo, amante dopo amante. Un uomo comune, con scheletri nell’armadio, che viene accostato al caustico personaggio dalle poche ma taglienti parole. Un uomo che alle elucubrazioni nichiliste del partner risponde, “sei il Michael Jordan dei figli di puttana”, oppure sbuffa.
La serie pullula di riferimenti letterari (come a “The Yellow King” di Robert W. Chambers) e la figura Rust Cohle è ispirata ad uno degli scrittori più controversi e al contempo meno conosciuti della letteratura,Thomas Ligotti. Spesso definito il più grande scrittore horror vivente, Ligotti è una figura assolutamente schiva, della cui esistenza si è persino dubitato in passato. Dal suo “The Conspiracy Against the Human Race: A Contrivance of Horror”, derivano citazioni di Rust come “siamo creature che non dovrebbero esistere, secondo la legge naturale.”
C’è invece Lovercraft dietro la sua teoria del terrore cosmico: l’uomo non è nient’altro che un insignificante burattino di carne in un cosmo meccanico e solo la morte, o meglio l’attimo prima di morire, libera l’uomo dall’inganno dell’esistenza.
Una chiave di lettura interessante è rappresentata dalla “Locked room”, titolo della III puntata, che si riferisce ad un topos del genere poliziesco, in cui il crimine da risolvere sembra esser stato compiuto in circostanze senza apparente spiegazione logica. Questa stanza chiusa però è anche la mente umana, il luogo del delitto e del rompicapo più complesso: con questa espressione si colgono sia la differenza tra Cohle e Hart, sia la consapevolezza che “man in the cruelest animal”.
Hart è un uomo inconsapevolmente in crisi e nel tentativo di dare un senso ad ogni cosa, tiene tutto sotto controllo (“I just don’t ever want you mowing my lawn, all right? I like mowing my lawn”); Rust è sceso nella sua locked room, dove si è reso conto che l’universo rivela di continuo la mancanza di senso dell’esistenza e che la mente non è nulla di più che questa maledetta stanza claustrofobica, senza misteri da risolvere.
Malgrado i riferimenti al lynchiano Twin Peaks siano presenti, per via delle visioni di Rust, viene meno l’elemento sorpannaturale: il peggio del peggio siamo sempre noi.
(…)To realize that all your life, you know, all you love, all you hate, all your memory, all your pain—it was all the same thing. It was all the same dream, a dream you had inside a locked room, a dream about being a person. And like a lot of dreams . . . there’s a monster at the end of it.
E quel mostro è proprio l’uomo, nulla di più: l’uomo peggiore che si possa immaginare sì, ma sempre un individuo, frutto della violenza e della brutalità che la natura, che circonda la storia, non fa che rivelare ancor più nettamente, come uno specchio, un animale nel suo ambiente naturale.
Infiniti paesaggi desolati, individui scontrosi e spesso inquietanti, secolari tradizioni e leggende popolari sono la cornice di questa corsa al mostro, e la selvaggia Lousiana diventa inevitabilmente la terza, silenziosa protagonista. Tutto è bruto, lasciato all’oscurità dell’uomo, alla sua primitiva e aquitrinosa coscienza.
Eccezionale la musica, a partire dalla sigla degli “Handsome family”, gruppo country rock, “Far form any road” che cattura dalle prime note, per arrivare a Johnny Cash e Lou Reed. Acclamatissimo anche il piano sequenza di sei minuti nella IV puntata: 1 giorno e mezzo di girato, 7 ciak e un McConaughey molto GTA, per una grande prova registica e un’azione che non si poteva proprio spezzare.
Malgrado le ovazioni ricevute, qualcuno ha criticato la serie perché “non rivoluzionaria”, non cogliendo però che non è di rivoluzione che si necessita qui: TD non ha una trama mai vista, né personaggi mai rappresentati sullo schermo; nasce dal solco della tradizione, attingendo dal cinema noir, dalla filosofia di Nietzsche, dalla letteratura gialla e horror, non allo scopo di sorprendere con qualcosa che si vuol far passare per nuovo, ma anzi riportandolo in auge.
True Detective è la crisi dell’uomo, di quello moderno, semplice o profondo che sia, e di quello primitivo, che segue solo i suoi impulsi, che adora Satana e non ha una morale. Come altri polizieschi, True Detective è una metafora dell’anima umana, delle sue ombre e della sua luce, ma si rivela in qualche modo “più umana”, nel senso benevolo del termine, non tracciando una separazione netta tra bene e male, piuttosto mostrando le sfumature dello stesso quadro: il male è una realtà e si può decidere di negarla, di esserne vittima e poi carnefice, oppure di riconoscerla e affrontarla.
E come Dante alla fine del suo viaggio infernale, anche noi con Cohle e Hart, guardiamo il cielo che chiude l’ultima scena e, malgrado il nulla che impera sotto il manto stellato, malgrado il male che facciamo e subiamo, ci sentiamo vivi.