“Lascia ch’io pianga
mia cruda sorte,
e che sospiri
la libertà .”
Antichrist si apre sulle note dell’aria più celebre di Händel, una metafora del dolore, una sorta di sintesi musicale di tutte le sofferenze che gli uomini sono costretti a patire. È facile, quindi, intuire che non si tratta di una scelta casuale se pensiamo che Lars Von Trier ha partorito questo film come terapia per uscire da una grave crisi depressiva. Primo capitolo della “Trilogia della depressione” (seguono Melancholia e Nynphomaniac), Antichrist è senza dubbio la pellicola più cruda e provocatoria del regista danese, nonchè la più criticata e discussa.
Von Trier è stato più volte accusato di essere un misogino, un sadico oltre che un inutile provocatore. C’è chi afferma, esagerando, che il film sia la conferma di un’ipotetica infermità mentale del buon Lars. Ma Antichrist è un film ragionato, profondo, i cui concetti sono espressi con razionalità e cognizione di causa. Le accuse di misoginia si dissolvono quando ci rendiamo conto di trovarci di fronte ad un’opera che vede il personaggio femminile ribellarsi al dominio (in questo caso psicologico) dell’uomo.
Come i successivi Melancholia e Nynphomaniac, Antichrist è diviso in capitoli: Prologo, Dolore, Pietà , Disperazione, I tre mendicanti e Epilogo. La trama è sviluppata intorno a due soli personaggi, moglie e marito. Impegnati in un intenso atto sessuale non si accorgono del figlio piccolo che, svegliatosi, cade dalla finestra, morendo. Per cercare di esorcizzare il dolore, si trasferiscono in un bosco chiamato Eden, dove seguirà un crescendo di follia e violenza sia fisica che psicologica.
Il prologo, girato in slow motion e in bianco e nero, mette in scena la morte del figlio. La peculiarità di questo tragico incipit sta nel fatto che la scena è totalmente priva di dolore. La musica di Händel e lo slow motion rendono morbida e delicata una sequenza terribile. Il prologo rappresenta la sintesi di tutta l’opera. Von Trier ci palesa l’intenzione di non porre nessun freno alla propria libertà , proponendoci a sorpresa un dettaglio sessuale piuttosto esplicito. Nella sequenza ci vengono mostrati un paio di oggetti che cadono (lo spazzolino, la bottiglia) anticipando, probabilmente, il volo del bambino dalla finestra.
Vengono poi inquadrate tre statuine, i tre mendicanti (riferimento alla favola serba “The story of Three Wonderful Beggars“), che portano i nomi Pain (dolore), Grief (ansia) e Despair (disperazione). Ciò che subito destabilizza è il bambino che, sceso dal letto, guarda i genitori fare sesso e poi si gira fissando lo spettatore con uno sguardo vagamente complice: come se fosse perfettamente cosciente di ciò che sta per fare. Sono tanti i dettagli simbolici e premonitori nascosti in questi cinque minuti iniziali, ma sarebbe impossibile elencarli tutti senza fare spoiler.
Il prologo e l’epilogo saranno gli unici momenti insolitamente leggeri di tutta l’opera. Per il resto, Von Trier riuscirà molto bene nel farci immaginare le sensazioni di ansia, paura, insicurezza e panico che ha sofferto in quel periodo.
Il dolore arriva all’improvviso, come uno schiaffo, nella breve scena del funerale. Notiamo la presenza di alcuni partecipanti al rito, che appaiono dietro i protagonisti e i cui volti sono oscurati. Questo espediente contribuisce a marcare la distanza tra il mondo esterno e il personalissimo mondo dei due coniugi. Un mondo che prenderà forma e che sarà possibile identificare con Eden, il bosco in cui i due si trasferiranno. È superfluo specificare che il nome scelto non sia casuale. Ciò che disorienta, però, è constatare che Eden sia tutt’altro che un paradiso terrestre. Sembra piuttosto che la forza ultraterrena che lo governa sia una forza maligna, vendicativa e sadica. E questa malignità si riverserà tutta nella psiche della protagonista che, mano a mano, rivelerà la propria natura distruttiva e un’innata cattiveria.
Tuttavia è facile intuire come la donna agisca per senso di colpa nei confronti del figlio. Ed è proprio questo senso di colpa a conferire un significato alle scene (molto esplicite) del flagellamento dei sessi. D’altronde è proprio da lì, dal sesso sinonimo di piacere materiale, che nasce il dolore, la colonna portante dell’opera. Viene evocato, in un certo senso, il concetto di violenza medievale, finalizzata all’espiazione dei peccati e alla purezza dell’anima. Vi è una sorta di avversità nei confronti del sesso, che non appare sensuale, ma sporco e inquietante.
Sarebbe azzardato affermare che Von Trier, ateo radicale, voglia farci una morale religiosa su ciò che è puro e ciò che non lo è. Probabilmente quello che cerca di trasmettere si ricollega al disagio provocato dalla depressione e a come essa porti a concepire negativamente anche ciò che rappresenta il piacere assoluto. La religione diventa quindi un mezzo, non un fine.
Numerosi i riferimenti ad altre pellicole. Le atmosfere ricalcano molto quelle di Stalker di Tarkovskij (a cui, non a caso, il film è dedicato). Sul piano concettuale il film strizza l’occhio a Possession di Zulawski: “il caos regna”, un rapporto di coppia complicato e violento, la donna che rappresenta il male.
La fotografia, affidata ad Anthony Dod Mantle, appare sporca ma allo stesso tempo incredibilmente raffinata. Rende marmorei i corpi dei protagonisti, esaltandone la muscolatura e rendendo incredibilmente profondi i primi piani. Dal canto loro, Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg riescono perfettamente in un’impresa tutt’altro che semplice.
Antichrist è un’esperienza estrema. Un viaggio terrificante nella mente di un uomo paranoico e depresso ma geniale. Un viaggio che mette a dura prova lo spettatore, ma che merita di essere intrapreso.