3) Gone girl, di David Fincher
“Stai delirando, tu sei folle! Ma perché ci tieni tanto? Si, io ti amavo, ma siamo riusciti solo ad odiarci e a dominarci a vicenda facendoci molto male.”Â
“Si chiama matrimonio.”Â
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Una visione piuttosto negativa e grottesca quella del matrimonio, che Fincher decide di mettere in scena. Una sorta di metafora portata dall’estreme conseguenze sul gioco perverso dell’unione istituzionale come interpretata dal regista. Un gioco d’astuzia. Come di consueto Fincher si dimostra un regista innovato e controcorrente. Come in altre pellicole da lui dirette, riprende il genere del thriller all’americana, ma ribaltandolo. In Gone Girl lo spettatore prende coscienza dei fatti reali già da metà spettacolo. In questo modo Fincher mette da parte quello che sembrava essere il binario narrativo principale per deragliare l’attenzione dello spettatore sulla verità nascosta. Si costruisce così un gioco d’inganno, cui Nick Dunne è vittima e cerca di liberarsi. E di cui lo spettatore è consapevole. Tuttavia anche il reale racconto non troverà soddisfazione e appagamento. Come nella filmografia di Fincher il finale non è mai risolutivo e conciliatore. Piuttosto una conclusione amara e inconcludente. Tanto più in Gone Girl, in cui la situazione sembra non aver sortito alcun effetto se non quello di smascherare l’ipocrisia dietro la quale si celavano i due personaggi. Una situazione dalla quale purtroppo non possono uscire, o meglio Nick non può uscire. Vincolato, prigioniero della follia perversa di sua moglie Amy. Gone Girl è tra i migliori lavori del regista, tanto a livello tecnico mostrando un’ormai matura e piena padronanza del mezzo filmico sia nelle scelte stilistiche che fotografiche. Tanto a livello di impatto sul pubblico, diventando forse tra i lavori più celebri non solo del regista ma anche degli ultimi anni, per la caratterizzazione di un personaggio femminile manipolatore e senza scrupoli, che ha attirato l’odio dei più. Gone Girl si piazza di sicuro tra i thriller meglio riusciti della sua generazione, e uno dei film migliori del 2014.
(a cura di Aurelio Fattorusso)
La perseveranza è tutto, soprattutto se hai un sogno. La fatica non è nulla in confronto all’entusiasmo e alla soddisfazione nell’essere riusciti a tagliare un traguardo. Una corsa contro se stessi e i propri limiti, una partita dove ci si gioca tutto per arrivare alla propria destinazione. Whiplash è tutto questo, un grande elogio d’amore nei confronti dell’arte e degli uomini che dedicano la loro vita ad essa. Una chimera per molti, una bestia domabile per pochi, solo per quelli disposti a sacrificare tutto per quel mondo cinico e feroce, simile ad un animale. Una pellicola diretta con grande maestria, con un montaggio curato e ritmato, capace di rendere visiva la musica che ascoltiamo. Un’opera volutamente esagerata nella sua forma, per dare un corpo e un’anima alla fatica e all’ambizione di un ragazzo e al suo sogno. Whiplash è un cinico incoraggiamento a perseverare nei propri obbiettivi, una visione condivisibile o meno, sulle priorità di una vita fatta di arte e sudore. Un film grandioso per un regista esordiente, che lascia lo spettatore turbato e angosciato per un’ambizione troppo esasperata, da poter essere apprezzata e condivisa.
(a cura di Davide Roveda)