Lo Sciacallo è riuscito nell’intento di diventare, sin da subito, un piccolo cult. Non solo per la sua storia cinica e spietata, ma anche per l’essenza stessa dei suoi personaggi, a partire dal protagonista interpretato da JakeGyllenhall. Una persona avida, fastidiosa e che sa decisamente quello che vuole. Una storia che non si discosta molto dai classici del genere, ma che riesce, grazie a un’atmosfera davvero ben riuscita a far riflettere lo spettatore. Una schiavitù dell’audience rappresentata in un thriller decisamente ben riuscito.
Il tutto perfettamente amalgamato in un’ottica prettamente urbana, che strizza l’occhio più volte a film dello stesso genere, come per esempio lo splendido Drive di Nicolas Winding Refn. Dopo aver sceneggiato diversi film importanti, il regista e sceneggiatore Dan Gilroy decide di esordire dietro la macchina da presa e non poteva scegliere un soggetto migliore. Come abbiamo detto prima, il film vive grazie ai suoi personaggi e riflettono un mondo decisamente riconoscibile. L’audience, lo stress, tutte caratteristiche che si respirano all’interno della pellicola e questo permette allo spettatore di entrare in sintonia con i personaggi, ma non di affezionarsi completamente, dal momento che nessuno di loro si può definire veramente ”buono”. L’approvazione, la ricerca del successo diventa una metafora per dipingere dei personaggi sgradevoli, ma al tempo stesso così affascinanti. Complice anche una grande interpretazione di Gyllenhall, che qui oltre ad apparire dimagrito (ha perso 9 chili per il ruolo), mette davvero i brividi per la sua completa immedesimazione. Una sceneggiatura che caratterizza bene ogni singolo dettaglio, fino ad arrivare a un finale intenso e rivelatorio. Un film che è impossibile non amare. Un cinema citazionista, provocatorio, che oltre ad offrire grandi interpretazioni, lascia numerosi spunti di riflessione. Una pellicola di cui, oggigiorno, abbiamo tremendamente bisogno e che assume sempre di più dei risvolti inquietanti, dal momento che non si discosta molto dalla nostra tremenda realtà , affamata di notizie.
David Robert Mitchell si è fatto conoscere in tutto il mondo col suo horror It Follows, che ha diviso il pubblico in due parti. Da un lato, chi lo considera un capolavoro del genere degli ultimi vent’anni e chi, dall’altro, lo reputa noioso, banale, vuoto e recitato pessimamente. Mettendo da parte il gusto personale, It Follows resta indubbiamente e obiettivamente un gran film, uno degli horror più belli degli ultimi anni. Jay (interpretata dalla bella Maika Monroe), dopo essere andata al cinema con un bel ragazzo, finisce per consumare con quest’ultimo un rapporto sessuale in auto.
Successivamente il ragazzo la narcotizza e la lega ad una sedia, posizionandola in un grande edificio abbandonato e in rovina. Il giovane in realtà è da tempo perseguitato da un’entità malvagia e anonima, che si manifesta prendendo le sembianze di chiunque, che ha ora passato alla protagonista attraverso il rapporto sessuale. Per liberarsene infatti, Jay dovrà far sesso con un’altra persona. Così sarà come un passaparola. Però, se il demone uccide colui a cui l’hai passato, tornerà a dare la caccia a te come il gatto col topo.
It Follows può essere chiaramente considerato un gioiellino horror del cinema contemporaneo. In un periodo in cui primeggiano sequel, prequel, remake e reboot, trovare un lavoro fresco e originale è raro. It Follows è qualcosa di nuovo per gli spettatori, che esplode in un epilogo aperto che lascia molto all’immaginazione. Dopo il punto di saturazione, l’opera di Mitchell sconvolge e spiazza. Lo fa positivamente con una pellicola che semplicemente ci mostra qualcosa senza darci una vera e propria spiegazione di fondo. Mitchell ci porta davanti ai nostri occhi l’immagine della morte, faccia e corpo concreti del male assoluto che pare essere astratto, ma che può avere qui il volto di chiunque: anche il nostro. Cosa c’è di più spaventoso di non conoscere il volto del tuo killer? Di potertelo ritrovare davanti senza neanche saperlo?
Un film che riesce a incutere terrore e prende in modo incalzante, ammaliando lo spettatore grazie alla meravigliosa fotografia di Mike Gioulakis. L’insieme delle immagini, quasi sovrannaturale, con quei paesaggi che fungono da morale. Le riprese che corrono freneticamente lungo il panorama suggestivo, non sono altro che il riferimento all’inseguimento della morte verso la sua prossima preda. Un film che non vuole soltanto spaventare, ma insegnare qualcosa e fare una critica sociale, servendosi di un’estrema lentezza alternata a colpi di scena terrificanti e campi lunghi. Notabile l’allegoria alle malattie veneree sessualmente trasmissibili, al terrore del passaggio alla maturità col sesso e al connubio tra eros e thanatos. L’elettrizzante ed elettronica colonna sonora di Disasterpeace scandisce i momenti di ansia e ci preannuncia l’arrivo del male. Colpi di stile? Il rimando alle opere fine anni ’70- inizio anni ’80, in modo particolare all’Halloween di John Carpenter.