Full metal jacket, saggio junghiano sulla dualità dell’uomo

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“Io volevo soltanto fare riferimento alla dualità dell’essere umano signore, l’ambiguità dell’uomo una teoria Junghiana, signore.

Così risponde il Soldato Joker in una scena del film, interpellato da un superiore sul motivo per cui indossava una spilletta raffigurante il simbolo della pace e contemporaneamente un elmetto su cui scritto “Born to kill” (nato per uccidere).
Una dichiarazione d’intenti per nulla velata da parte di Kubrick che ci tiene a precisare la natura ultima della sua opera, ovvero non un semplice film di guerra, ma un enunciato metalinguistico dei temi più cari al regista: antropologia, (libero) arbitrio, dualità, procedimento dialettico come ricerca della verità.
Fa veramente tristezza pensare alla banalizzazione che questo film ha subito nel pensiero comune (incolpevolmente) nel corso degli anni, a causa della trivialità della prima parte che ha causato ebeti risatine in chi, probabilmente, non ne ha nemmeno mai terminato la visione.

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Partiamo dal fatto che la storia di Full Metal Jacket è divisa in due parti, la prima ambientata nel campo di addestramento dei marines e la seconda in Vietnam. Il tutto diviso idealmente dalla drammatica morte del soldato Palla di Lardo, che funge da spartiacque e rappresenta il culmine dell’evoluzione del suo personaggio. Argomento di cui parleremo più in là.
È interessante notare che quasi tutto ciò che si vede nella prima parte, ha un parallelo nella seconda. Si tratta di una struttura ricorrente nei film di Kubrick, che l’aveva già adottata in 2001: A Spacey Odyssey prima (dividendo la parte con le scimmie, dalla parte con gli astronauti), e in A Clockwork Orange poi ( la vita di Alex prima e dopo il trattamento Ludovico).

Ma a ben vedere tutto il film è pieno di dualismi: la spilletta pacifista di Joker e la scritta nati per uccidere sull’elmetto, le due drammatiche morti a conclusione di ciascun capitolo, il desiderio conflittuale di Joker di prender parte alla guerra, ma contemporaneamente di uscirne il prima possibile.

Tutti questi aspetti rendono Full Metal Jacket un film difficilmente catalogabile.
Soprattutto in considerazione del fatto che il cinema Hollywoodiano offre sostanzialmente tre tipi di film di guerra: 1) film contro la guerra, come Platoon o Path of glory, 2) film che “la guerra è stupida ma necessaria e talvolta anche nobilitante” (Salvate il soldato Ryan) e 3) i film di propaganda veri e propri.
Beh, si dà il caso che FMJ non faccia parte di nessuna di queste categorie. Il film difatti non solo si rifiuta di prendere una posizione riguardo la guerra dal Vietnam, ma ne abbraccia tutte le contraddizioni.

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In questo senso la pellicola si presenta come un’analisi distaccata del fenomeno, una specie di fredda autopsia degli eventi. È come se Kubrick volesse interpretare la parte di una ipotetica civiltà aliena che studia l’umanità sotto la lente di un microscopio. Kubrick non si presta a giudizi morali, semplicemente osserva. E osserva nel modo che lo contraddistingue, cioè meticolosamente, in modo scientifico, con una minuzia ai limiti dell’ossessivo, nel modo più oggettivo e distaccato possibile. Ben nota era la  personalità che lo aveva sempre contraddistinto ed il motivo per cui si erano create tensioni con molti degli attori con i quali aveva lavorato.

Tornando al discorso, il sergente Hartman, Joker, il cecchino vietnamita, perfino il folle soldato che spara ai civili vietnamiti dall’elicottero vengono osservati dalla cinepresa. Il film non prende la parte di nessuno e si esime dal dare giudizi morali su chi siano i buoni e chi i cattivi.

Basti pensare alla figura del Sergente Hartman, interpretato magistralmente da R. Lee Ermey: a prima vista potrebbe sembrare il candidato ideale per rappresentare il villain del film. Un freddo e spietato manipolatore di coscienze, un incorruttibile strumento del governo per forgiare assassini da mandare in guerra. Ma a pensarci meglio, Hartman non è affatto un cattivo, ma esattamente il contrario.
Il suo compito è quello di preparare i suoi soldati a sopravvivere sul campo. È una figura paterna, è un protettore ed un maestro.

Dato che sono un duro non mi aspetto di piacervi. Ma più mi odierete più imparerete. Io sono un duro però sono giusto”.

Da questo punto di vista, il trattamento che riserva a Leonard Lawrence non è solo comprensibile, ma necessario; se Palla di Lardo fosse andato in Vietnam a causa delle sue debolezze non sarebbe stato una minaccia solo per sé stesso, ma anche per gli altri.
La morte di Hartman per mano di Palla di lardo non è altro che il culmine della naturale evoluzione di questi due personaggi, con le dovute (sostanziali) differenze: se per Palla di Lardo rappresenta un atto catartico e liberatorio, per Hartman la morte è l’unica soluzione possibile.

In quanto Maestro, deve morire, perché il nostro eroe deve imparare a farcela da solo.
Chi sarebbe il nostro eroe in FMJ? Ovviamente Joker, personaggio il cui nome non viene mai menzionato, ma se si guarda con attenzione si può vedere che la sua etichetta sulla maglia recita: “J.T.Davis”.
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Di nuovo, evitando volutamente di menzionare il suo nome Kubrick non assume il punto di vista del personaggio, ne narra le vicende dall’esterno, senza approfondirne gli aspetti personali.
Full metal jacket si presenta come la storia della sua crescita, della sua trasformazione da bambino protetto a soldato auto-attualizzato.
All’inizio del film è un’anima gentile che prova in tutti i modi di mantenere un distacco ironico dalla guerra del Vietnam. Risponde alle ingiurie di Hartman con una beffarda citazione di John Wayne e la sua “faccia da guerra” non è altro che una patetica imitazione dell’urlo di un uomo che ha visto la morte solo in TV.

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Per Joker, la guerra è qualcosa di remoto, e la morte è qualcosa che accade solo ad altre distanti persone.

Ma nei successivi 120 minuti dovrà ricredersi, vedendo lentamente crollare tutte le sue ideali barriere che lo separano dalla morte. Perfino la figura autoritaria che nel corso del film lo protegge dalla malvagità del mondo va assottigliandosi col passare del tempo: all’inizio il sergente Hartman, poi un colonnello che gli dice di “stabilire un contatto tra la testa e il culo, altrimenti sono cazzi enormi”.

Verso la fine del film, Joker si trova faccia a faccia con la morte per la prima volta. Quando incontra il cecchino vietnamita, ci rendiamo conto che Joker non è mai stato sotto il fuoco nemico prima; né ha mai ucciso un essere umano.
È il momento della verità per Joker, ciò per cui il Sergente Maggiore Hartman lo aveva preparato.

Ma il soldato fallisce miseramente. Come Hartman aveva profetizzato: “Il fucile è solo uno strumento, è il cuore di pietra quello che uccide“.

Prima nel film, Joker aveva chiesto al mitragliere sull’elicottero “Come puoi sparare a donne e bambini?“.
Ora quella domanda torna a perseguitarlo, trovandosi di fronte ad un cecchino che si scoprirà poi essere una giovane ragazza.
La telecamera indugia sulla faccia del marine fin quando finalmente accetta la dualità insita nella natura dell’uomo: gli esseri umani sono sia selvaggi che civilizzati, sia gentili che crudeli, sia nobili che degenerati.

Joker spara.

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Full Metal Jacket si conclude con la marcia dei marines accompagnata dalla canzone di Mickey Mouse. “Sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo e prossimo al congedo“, ammette Joker nel finale.
Certo vivo in un mondo di merda, questo sì. Ma sono vivo, e non ho più paura.

Adattamento italiano dell’articolo di David Louis Edelman.