L’Uomo Di Neve – Recensione

Prodotto da Martin Scorsese e diretto da Tomas Alfredson. Un thriller dallo stile ibrido che risente molto dei ritmi lenti del cinema nord europeo.

recensione l'uomo di neve
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RECENSIONE L’UOMO DI NEVE – C’è un assassino che gioca con il tormentato detective Hole. Un assassino che decapita le proprie vittime e che lascia sempre una traccia, come tutti i serial killer: un pupazzo di neve. In inglese “Snowman”, letteralmente “L’uomo di neve“, appunto. Un progetto ambizioso quello diretto da Tomas Alfredson, soprattutto se dietro c’è Martin Scorsese che ha rinunciato alla regia spostandosi ancor di più dietro le quinte, nelle vesti di produttore esecutivo.

Un progetto ancor di più ambizioso se il cast è composto da attori di prim’ordine (tutti bravissimi, non c’è che dire) da Fassbender fino a J.K. Simmons, che getta via la bacchetta e la sua ossessiva ricerca del tempo perfetto. Aggiungiamo poi che la sceneggiatura vede la firma di un mostro sacro come Amini, autore di script come quel gioiello di Drive. Pezzi che uniti l’uno con l’altro danno il via alla genesi di questo film che sguazza un po’ troppo nell’ibrido di stili, dalla struttura circolare e morbosamente attaccato ai luoghi. Tutto finisce dove tutto è iniziato.

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RECENSIONE L’UOMO DI NEVE – Dalla fredda Svezia infestata dalla presenza di un vampiro fino ai tradimenti ed allo spionaggio europeo. Da “Lasciami Entrare” a “La Talpa“, Alfredson dirige il suo terzo film. Tre adattamenti, da Le Carrè a Lindqvist. Ora tocca a Nesbø. Elementi noir che si uniscono al thriller ma senza mai staccarsi dal dramma familiare, leitmotiv di tutto il film. Michael Fassbender è il detective Hole, personaggio creato dallo scrittore norvegese Jo Nesbø che con la sua saga ha venduto milioni di copie.

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Un detective tormentato che incarna lo stereotipo dell’anti eroe noir. Ha problemi di alcool, ha problemi a relazionarsi con le persone, dorme in strada quando è troppo ubriaco. Ma è bravo. Uno dei migliori in circolazione. Cosa lo tormenta non ci è dato saperlo, almeno fino alla fine del film. Ed anche la sua partner nelle indagini, una bellissima Rebecca Ferguson, ha un passato scomodo con il quale deve fare i conti. Il ritorno del rimosso, come direbbe Freud. Quella parte oscura di un passato cancellato ma non ancora eliminato che c’è, permane e persiste nella memoria di tutti.

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RECENSIONE L’UOMO DI NEVE – Il passato ed il presente si alternano, la linea temporale è accomunata solo dalla fredda Norvegia e dalla neve persistente. Il dubbio è ciò che attanaglia lo spettatore sin dall’inizio del film. E questa sconnessa linea temporale non aiuta certo a rispondere alle domande. Ogni identità viene messa in dubbio, ogni rapporto umano non è mai ciò che sembra realmente, come quello tra Hole e Rakel (Charlotte Gainsbourg).

Il concetto di famiglia viene dissacrato poco a poco, spezzato dai personaggi ed infine ucciso dall’assassino. Quella calda e rassicurante apparenza che svanisce attimo dopo attimo, facendo venire a galla un passato analogo al presente, con l’unica differenza che anni prima il male aveva vinto sul bene. Il detective Rafto, un Val Kilmer ormai sempre più la copia (fisica) di Mickey Rourke, non era riuscito a risolvere il caso. Il passato che riemerge, dunque, ancor peggio di come era prima, ancor più carico d’odio da un lato e di rancore dall’altro.

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RECENSIONE L’UOMO DI NEVE – Impelagarci nella questione che lega da sempre gli adattamenti filmici di opere cartacee non ha molto senso. Chi ha letto il libro rimarrà più che soddisfatto dall’adattamento, sebbene alcune imperfezioni non lo rendano, inevitabilmente, propriamente perfetto. Il ritmo lento, tipico del cinema nordeuropeo, sembra creare una dicotomia tra l’effettivo scioglimento dell’intreccio, ora movimentato, ora no. Quasi uno scontro tra la frenesia tipica di Scorsese e la lenta riflessione di Alfredson, un regista che per sua stessa ammissione non è un fan delle spy story. In questo senso, il regista svedese predilige molto di più scavare a fondo nei personaggi, nella loro psicologia e nella loro emotività, come accadde in Lasciami Entrare.

Una grande qualità che si trasforma in un problema, in questo caso. La svolta riflessiva di Alfredson non riesce a coniguarsi bene con tutto quello che accade, salvo nel finale, che appare comunque ben troppo sbrigativo e frenetico. La mano di Scorsese c’è e si percepisce in molte scene, così come quella di Alfredson. Ma i due stili così mescolati tra loro creano un ibrido che non soddisfa pienamente, soprattutto chi non è pieamente a conoscenza della storia originale.