Canadese di nascita e hollywoodiano di adozione, Denis Villeneuve è senza ombra di dubbio tra i registi più chiacchierati del momento. Vuoi per i successi di pubblico e critica dei suoi ultimi lavori, vuoi per la fremente attesa che sta accompagnando il già discusso (e, in verità, discutibile) sequel di Blade runner. Ma il dato forse più evidente ed incontrovertibile riguardo all’attuale posizione di forza del regista di Trois-Rivières è il cospicuo numero di rumours (ufficializzati o meno) che lo vogliono al timone delle più importanti produzioni mainstream future. Da 007 al remake di Dune, passando per un nuovo biopic su Cleopatra voluto da Sony.
Ma com’è arrivato un regista arthouse straniero (e addirittura ben più europeo che americano nelle influenze) ad ottenere le chiavi di Hollywood? Tutto passa, com’è giusto che sia, dall’esponenziale maturazione stilistica e dalle notevoli doti di narratore. Qualità che il buon Villeneuve non ha mancato di dimostrare nel corso della sua ormai ventennale carriera dietro la macchina da presa.
Una carriera che può già essere idealmente suddivisa in due periodi: quello anarchico, sfrontato, forse meno intellettualmente consapevole e spesso sterilmente autocompiaciuto – ma, ad ogni modo, promettente – dei primi lavori; e quello più maturo, centrato e rigoroso, intelligentemente protetto dai sicuri paletti del genere (thriller o sci-fi che sia), delle sue ultime opere. Tradotto, banalmente: il periodo canadese e quello americano, con La donna che canta come punto di raccordo essenziale tra questi due poli così apparentemente lontani.
In quest’articolo ci occuperemo del periodo canadese, in particolare di Un 32 aout sur terre, Maelstrom e Polytechnique. Film, per diversi motivi, ancora sostanzialmente acerbi. Nei prossimi tratteremo i suoi lavori successivi, sperando che Blade runner 2049 sia all’altezza delle aspettative.
Un 32 aout sur terre (1998)
Il debutto, a dire il vero, non è tra i più riusciti. Un 32 aout sur terre, infatti, storia di una donna che vuole avere un bambino dal suo migliore amico e del loro viaggio a Salt Lake City – luogo preposto al concepimento – si presenta, sin da subito, come dichiarato omaggio a Godard, a Fino all’ultimo respiro e alla Nouvelle Vague tutta: se non bastassero le fisionomie dei personaggi (il protagonista è ricalcato sulla figura di Jean-Paul Belmondo), i continui jump-cut e gli estenuanti dialoghi, ci pensa un’inquadratura prolungata sul poster di Jean Seberg affisso su un muro a toglierci ogni dubbio.
Altra esplicita citazione è poi la scena in cui l’uomo ripete ossessivamente il proprio nome nel bagno dell’aereo, come l’Antoine Doinel di truffautiana memoria, in piena crisi identitaria nel delizioso Baci rubati. E fin qui non ci sarebbe nulla di grave, in realtà. Peccato però che questa storiella d’amore sghangherata ed eccentrica finisca ben presto per perdere tremendamente di mordente; relegando anche gli spunti registici meno derivativi e più interessanti nei limiti della più totale mancanza di idee narrative veramente valide. Si vedano a proposito, i divertenti richiami visivi al viaggio con scopo procreativo dei due protagonisti.
Maelstrom (2000)
E’ già, invece, un gran bel passo avanti il successivo Maelstrom, il film che fa esplodere la vena più grottesca e surreale del regista.
Basti sapere che l’intera storia (frutto di ipnosi, stando a quanto viene dichiarato nei titoli di testa) è raccontata da un pesce parlante. Animale poi falcidiato dai colpi d’accetta di un lurido macellaio, in una grotta umida e tenebrosa. Il soggetto al centro della narrazione è ancora una volta una donna (come in tutti i film di questa prima parte della sua produzione). Una donna provata dal recente aborto chirurgico subito e consumata dai sensi di colpa per l’uomo che, ubriaca al volante, ha investito e ucciso. Solo il mare può ridarle la forza per continuare a vivere, solo l’amore fargli ritrovare la felicità.
Benchè scomposto e diseguale, Maelstrom è un film che cresce progressivamente col passare dei minuti; quando il sospetto per una narrazione sgrammaticalmente fine a sè stessa lascia il posto ad un pieno e sincero coinvolgimento psicologico. Ciò è frutto dell’abilità di Villeneuve nel delineare, con una chiarezza espositiva decisamente migliore rispetto a quella della sua opera prima, le personalità, i conflitti interiori e gli obiettivi dei suoi protagonisti. Forse il pastiche di elementi eterogenei (love story, dramma psicologico, venature fantasty/fiabesche, verve ironica) non è sempre ben calibrato. È qui però che vengono poste le basi sia per quel gusto dell’assurdo ripreso in Enemy e per un’altra caratteristica del regista. L’idea, tipicamente post-moderna, di un racconto suscettibile di deragliamenti spazio-temporali. Qui, ad esempio, abbiamo il ripetersi di una stessa situazione vissuta dal punto di vista di due diversi personaggi.
Il terzo lungometraggio, Polytechnique, è invece la storia del massacro del Politecnico di Montréal ad opera del venticinquenne Marc Lepin.
Giovane che il 6 dicembre del 1989, uccise a colpi di arma da fuoco quattordici studentesse prima di togliersi la vita. Sembra dover essere il film della maturità per Villeneuve, ma così non è. O meglio, lo è solo per quel che riguarda il comparto tecnico, questa volta davvero inappuntabile: dall’ottimo e più che mai funzionale bianco e nero ai fluidi ed elegantissimi movimenti di macchina. La costruzione della suspance e dell’opprimente claustrofobia della prima parte, però, finiscono per esser totalmente svilite da un controproducente e macchinoso svolgimento narrativo. Complice il sovra-citato deragliamento spazio-temporale che sfocia nell’evitabile sensazionalismo. Non aiuta poi un finale eccessivamente retorico e moraleggiante.
Lo stile visivo però, come detto, è in piena evoluzione. Ciò che si definisce al meglio è il sapiente ricorso, presto caratteristico, alle cosiddette oggettive irreali; quelle inquadrature o movimenti di macchina che palesano in maniera incontrovertibile la presenza di un’istanza narrativa forte. Una narrazione capace di veicolare a proprio piacimento lo sguardo dello spettatore. Nel caso di Villeneuve è peculiare la tendenza ad una certa astrazione fortemente allusiva. Ne sono degli evidenti esempi le immagini sopra riportate tratte da Un 32 aout sur terre, mentre qui sotto vi è una riprova presa proprio da Polytechnique. Sangue di vittima e carnefice si uniscono progressivamente in un’unica ed indistinta macchia nera, rappresentazione eloquente della fallace ideologia misogina dell’attentatore.