La genesi del cult generazionale che ha animato le menti di tanti cinefili. La visione distaccata di un regista che ha scelto la via del cinema per illustrare la modernità .
Tanti registi hanno provato ad addentrarsi nel vasto mondo della droga, utilizzando punti vista sempre variegati e differenti.
Ci aveva provato Darren Aronofsky nel 2000 con il tanto acclamato Requiem for A Dream, avvalendosi di una regia e un montaggio superlativi, intenti a catturare l’attenzione dello spettatore e dare spessore alle sensazioni negative che dovrebbero allontanarci da questa realtà moderna poco edificante. Lo stesso Pasolini criticava l’utilizzo di sostanze stupefacenti, giustificando la loro integrazione come una mancanza di cultura, un vuoto da colmare con un aiuto “esterno”(con effetti interni).
Nessuno, però, aveva dimostrato di avere una visione di insieme tanto cruda quanto mentalmente aperta. Si rischiava spesso di cadere nell’inverosimile e nel moralismo, perdendo credibilità e, di conseguenza, la fiducia nell’esposizione da parte dello spettatore. Nel 1996, però, il quarantenne Danny Boyle, con un budget di 1.5 milioni di sterline, decise di dare vita ad una pellicola destinata a rimanere impressa nell’immaginario collettivo nei tanti anni a venire. Ma cosa rese le avventure di Renton e compagni tanto funzionale?
Successivamente, dà spazio alle conseguenze delle loro azioni immature e poco consapevoli, tra problemi giudiziari e morti improvvise, inattese e volutamente prive di un qualsiasi peso emotivo. E’ come la realtà , dove esse non servono a costruire un attimo, ma a spezzarlo senza preavviso, lasciando tutti nello sgomento.
Arriverà poi il momento della redenzione, la prova di poter dimenticare il passato e cominciare una nuova vita, tagliando di netto i rapporti costruiti precedentemente.
Gli amici veri, però, bussano sempre alla porta. E questo succede in Trainspotting