“Se Dio esiste spero abbia una buona scusa”. Dio esiste, ed è un uomo di mezza età dispotico, irascibile, sadico e misantropo; ha creato l’umanità solo per noia. Dispensa tanto dolore e poche gioie, solo per dare false speranze. Un dio cattivo, per il gusto di esserlo, quello messo in scena da Jaco Van Dormael. “Dio esiste e vive a Bruxelles” è sicuramente un film provocatorio per una frangia di accaniti cattolici conservatori; ma è un film il cui proposito è quello di trasmettere un messaggio che possa essere d’ispirazione ai più a vivere la vita in modo più sereno e libero. Il film di Dormael è uno spaccato dolceamaro su una porzione di umanità, gli sconfitti, i soli, i frustrati, gli emarginati; dipinti con una venatura di tristezza mista a malinconia. Dormael realizza una pellicola d’autore con un spiccato senso europeo e francese, che a tratti ricorda “Il favoloso mondo di Amelie”. “Amelie” ora è Ea una ragazzina, figlia di Dio, che stanca dei soprusidel padre scappa; e seguendo le orme del fratello J.C., raduna ora sei apostoli che l’aiutino a diffondere il suo messaggio.Complice, Victor, un barbone, il primo uomo che Ea incontra una volta scesa sulla terra; sarà lui ad aiutarla a scrivere il “nuovo nuovo testamento”. “Dio esiste e vive a Bruxelles” è una pellicola eccentrica a tratti grottesca, ma con un forte carattere malinconico che tuttavia riesce a strappare qualche risata e qualche sorriso; meritatamente nella lista dei migliori film del 2015, anche se ingiustamente passato “inosservato” al grande pubblico.
Nel secondo dopoguerra in Danimarca 2600 soldati del Terzo Reich, perlopiù tra i 14 e i 18 anni, vengono addestrati allo sminamento e costretti alla bonifica delle coste danesi. In questo contesto il regista Zandvliet racconta una storia che ondeggia tra odio e compassione, in cui i protagonisti sono un manipolo di ragazzini tedeschi, che sognano di avere una ragazza o di fare i muratori, e un sergente danese, indurito dagli orrori della guerra, al quale è rimasto solo il proprio cane. Land of Mine è una storia difficile, ma dalla narrazione lineare e compatta. Non vuole intrattenere, non vuole piacersi o stupire, ma raccontare, a tratti con tono quasi documentaristico, il destino dei vinti e dell’odio che nutrono per loro i vincitori. Roland Moller è il sergente Rasmussen e tiene in piedi l’inter film col proprio ambiguo personaggio, coadiuvato da una regia stressante che usa come arma migliore lunghi silenzi oppressivi e i ticchettii metallici del disinnesco delle mine. Ad onor del vero va detto che il taglio documentaristico dato al film contamina forse talmente le scelte narrative, fino a guidare il film verso un finale, facile e sbrigativo, che toglie un po’ di forza e carattere al patos della pellicola.
Con questo film Larrain costruisce una storia spietata, cruda, che attraverso la freddezza dei suoi personaggi, riesce a colpire dritto allo stomaco, rielaborando un tema, (come gli scandali della chiesa) in un’ottica inedita e ipnotica. Uno di quei film da guardare almeno una volta nella vita, per comprendere appieno le sofferenze dell’essere umano. Sottovalutato a più non posso, la pellicola si dimostra tra le più efficaci degli ultimi anni, in grado di trattare un tema spinoso, con estrema brutalità. Un capolavoro
The Wishpering Star, di Sion Sono
Sono riflette sull’importanza dei ricordi in un mondo ormai giunto alla fine. Pur essendo fantascientifico, infatti, The Whispering Star si concentra interamente sul passato. L’astronave sulla quale la donna viaggia ha le sembianze di una tipica casa giapponese, piuttosto umile. Indicativa anche l’idea di girare il film in bianco e nero. Il tempo, dunque, gioca inevitabilmente un ruolo importante. Il film si dimostra capace di trasmettere un’angoscia e una desolazione piuttosto pesanti, attraverso la minimalizzazione dei dialoghi, in favore di lunghi silenzi. Un autentico gioiello del cinema nipponico contemporaneo.
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