Un film che avrebbe potuto essere ma che non è stato. In pochissime parole, si può commentare così “The Devil’s Candy“, secondo film del regista australiano Sean Byrne, autore del buono “The Loved Ones“, che però tira il sasso simil demoniaco e toglie la mano. Tanti spunti più che decenti che però vengono realizzati molto male, come se questa fosse un’opera prima di un cineasta alle prime armi. Il che non sarebbe neanche troppo strano, considerata la giovane età di Byrne ma gli errori macroscopici non permettono alcuna forma di perdono, considerato che questo film ha tanto potenziale inespresso.
The Devil’s Candy, la recensione
Avrebbe potuto essere un film riguardante la correlazione tra arte pittorica ed esoterismo, farcita dalla musica ma così non è stato. La scelta è caduta su un confuso thriller dalle tinte demoniache ma mai indagate a fondo. Jesse è un pittore con la passione per il metal che si trasferisce insieme alla sua amata famiglia in una nuova casa, dove pochi anni prima un figlio con gravi disturbi schizofrenici, Ray, aveva ucciso l’intera famiglia. O per lo meno la madre, facendola cadere dalle scale dopo averla colpita con una chitarra elettrica, infastidito dalla richiesta della genitrice di evitare di suonare doom metal alle quattro del mattino. La musica in questo senso assume un ruolo primario nel film dal momento che viene usata da Ray per coprire insistenti voci demoniache presenti nella sua mente. Le suddette voci iniziano ad invadere anche la mente di Jesse che inizia a dipingere quadri sempre più cupi ed inquietanti parallelamente al ritorno di Ray nella casa che un tempo fu sua, attirato morbosamente dalla piccola Zoey, la figlia “metalhead” di Jesse, e “costretto” a prenderla con sé per sacrificarla a Satana.
All’apparenza potrebbe sembrare un thriller dai risvolti horror ma la confusione regna sovrana e risulta molto difficile categorizzare questo film. La figura cristologica (nelle fattezze più che nei comportamenti) di Jesse doveva essere gestita meglio così come l’intera trama che lascia molti dubbi irrisolti e domande senza risposta, affiancando al dualismo Ray-Famiglia di Jesse, una parte esoterica all’apparenza fondamentale ma poco considerata concretamente. Non aiutano certo i dialoghi, forse figli di un errore di traduzione, ed alcuni buoni momenti di regia, come la scena dell’altalena o alcune visioni di Jesse in pieno stile Rob Zombie, non riescono a portare il film ad una sufficienza striminzita. Un film, dunque, che manca di coraggio e che sembra essere schiavo di una narratività a tutti i costi, barcamenandosi ora nell’esoterismo ora nel thriller stile “invasion”.
Avrebbe potuto essere qualcosa di forte, onirico, ma Byrne ha preferito rimanere nel classico nonostante la storia si presti molto a deliri di ogni genere. L’inserimento del villain palesemente schizofrenico non permette la creazione di un corretto risvolto demoniaco dell’intreccio. Anzi, lo rende quasi superfluo e profondamente forzato, così come quelle scene che definire oniriche non renderebbero giustizia a chi l’horror onirico lo sa fare bene. Un vero peccato per questa occasione mancata soprattutto alla luce del grande potenziale insito nel film che avrebbe potuto prendere pieghe migliori, anche scontate à la Shining per intenderci ma che purtroppo ha preferito accodarsi ad un filone ormai troppo banale e saturo. Utilizzare un contesto musicale, come quello del metal, è molto difficile perchè si rischia di cadere nella banalità o nei soliti luoghi comuni, a prescindere dalla bontà della scelta dei pezzi e di gruppi come Slayer, Metallica, Sun O))) e Ghost. Ma qui non si può nemmeno parlare di banalità se non di vera confusione.