Il titolo di questa particolare “top”, che poi “top” non vuole essere, è già abbastanza eloquente, ma film e depressione è un connubio indissolubile che va approfondito.
Bisogna precisare come questa atipica classifica non voglia selezionare i 10 titoli più “tristi” di sempre (il che sarebbe assurdo), quanto piuttosto di mettere in evidenza 10 pellicole esemplari nel loro comune senso di tristezza, nell’accezione più profonda e pessimistica del termine. Non si parla qui dunque delle lacrime facili come quelle causate, per esempio, dalla morte di Di Caprio in Titanic, ma di un film che incarnano la depressione al meglio. Un mood depressivo che necessariamente deve percorrere tutta la durata dell’opera per poi culminare, eventualmente, nel finale.
Va poi considerata la volontà di offrire una panoramica cronologicamente ampia, spaziando dagli anni ’40 ad oggi, e di costituire, coi vari posizionamenti in “classifica”, più che un vero e proprio ordine di gradimento, un’escalation umorale verso la disperazione più nera e vivida.
Per ultimo, tenendo la Scimmia alla salute dei suoi lettori, si consiglia di diluire nel tempo le visioni qui proposte, senza abusare del connubio film e depressione.
10) Two lovers di James Gray (2008)
Libera trasposizione del racconto di Dostoevskij Le notti bianche, già portato sullo schermo da registi del calibro di LuchinoVisconti e Robert Bresson, Two lovers ci offre il ritratto di un uomo in crisi, sospeso tra le ordinarie aspettative di una vita comune dal futuro programmato (sia a livello lavorativo che sentimentale) e il sogno di una romantica fuga d’amore con una donna sbandata.
Il tocco vellutato ed elegante di James Gray si sposa perfettamente coi toni di questo atipico melò fondato sull’insoddisfazione atavica dell’uomo e sull’impossibile conciliazione tra felicità e ambizione. Joaquin Phoenix, come al solito, dà vita ad un personaggio estremamente umano nelle sue insicurezze e nel suo malessere esistenziale. Un film relativamente recente che è già, forse, un piccolo classico.
Nevrotico sceneggiatore hollywoodiano è sospettato dell’omicidio di una ragazza e successivamente scagionato dalla testimonianza di una vicina. I due si innamorano, ma la loro relazione sarà presto minata dal temperamento difficile dell’uomo e dall’insorgere dei ripensamenti della donna in merito all’ effettiva innocenza del compagno nel caso dell’assassinio. Avrà forse sbagliato a dare la sua parola per lui? E’ uno psicopatico o solo un impulsivo?
Un HumphreyBogart straordinario anima uno dei personaggi più ambigui della storia del cinema. Nicholas Ray dirige con stile, lavorando sulla chimica tra gli attori e su una particolare attenzione scenografica (importanza fondamentale data a porte, finestre e archi di edifici) un dramma nerissimo, un thriller decomposto in cui la scoperta dell’assassino, alla fine, non è davvero la cosa più importante.
Finale indescrivibile, da pelle d’oca.
8) Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli (1965)
Oltre ai giustamente blasonati Fellini e Antonioni (quest’ultimo senza dubbio avrebbe meritato almeno un posto all’interno di questa classifica), il cinema italiano degli anni ’60 poteva vantare una serie di autori di caratura tale da far invidia a qualsiasi altra cinematografia, europea e non. Pietrangeli è certamente uno di questi, e il film in questione è probabilmente il più adatto per rendersene conto.
L’aspirante attrice Adriana passa la sua vita tra balli, ricevimenti, iniziative e incontri. Dietro a una patina di apparente buonumore, si è creato però in lei un vuoto incolmabile, dettato dalla scarsa considerazione altrui e dalle sottili umiliazioni subite giorno per giorno.
In una modernissima struttura drammaturgica, ellittica ed episodica, legata solo flebilmente ad un filo logico-cronologico, Pietrangeli realizza un’opera di rara sensibilità, un ritratto di donna indimenticabile degno dei più grandi maestri, capace di colpire direttamente al cuore dello spettatore.
L’esordio alla regia di Claudio Caligari si preoccupa di rappresentare un vivido spaccato di vita dei ragazzi di Ostia (Roma) corrosi dalla dipendenza dall’eroina.
Servendosi di attori non professionisti e di veri tossicodipendenti, il regista di pasoliniane influenze sforna un virtuoso esempio di cinema-verità, in bilico tra il documentario e la fiction, tra l’eredità del neorealismo e l’ispirazione dal primo Scorsese. Il finale, che forse soffre di un eccessivo sensazionalismo retorico, scalfisce solo minimamente gli incisivi esiti di un’operazione scioccante ma necessaria, pregna della cruda disperazione di chi non riesce a vedere una luce in fondo al tunnel. Se cercate film e depressione, questo vi farà male.
6) Happiness di Todd Solondz (1998)
Mai titolo fu più antifrastico per il film che nel 1998 sconvolse il panorama del cinema indipendente americano. Happiness è un concentrato di squallore, depravazione e disperazione sbattuto in faccia allo spettatore, senza compromessi, animato da un’avvilente galleria di personaggi, dal sofferente al deviato, all’interno delle separate vicende dei componenti della famiglia Jordan. Quattro le linee narrative: oltre agli anziani genitori in via di divorzio, le vicissitudini che gravitano attorno a due delle tre sorelle (il marito di Trish, psicologo pedofilo pronto a soddisfare le sue perversioni con l’amichetto del figlio; il vicino di casa di Helen, scrittrice di successo, ossessionato da lei e suo assiduo disturbatore telefonico) e l’insoddisfazione esistenziale della terza, Joy, centralinista con la passione per la musica, mortificata da continui buchi nell’acqua sentimentali.
Dopo Fuga dalla scuola media, la definitiva consacrazione per Todd Solondz, autore scomodo eppur fondamentale, capace come pochi di portare alla luce il senso di inadeguatezza e le inevitabili nefandezze celate sotto il tappeto dell’America perbene.