I 16 film con la miglior regia del 21° secolo secondo la Scimmia (in ordine di gradimento)

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4 – Il petroliere, di Paul Thomas Anderson (2007)

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Paul Thomas Anderson si conferma dopo Magnolia e sforna un’altra grande pellicola. Vincitore di due premi oscar (miglior attore protagonista, Daniel Day-Lewis e migliore fotografia, Robert Elswit) e liberamente ispirato da un romanzo di Sinclair, il film ci mostra l’ascesa e il declino di un uomo solitario, Daniel Plainview (un Daniel Day Lewis straordinario nell’incarnazione del suo personaggio) che dedica la sua intera vita alla ricerca dell’oro nero fino a divenire un avido e folle capitalista, contrastato da un viscido predicatore pseudo religioso (Paul Dano). I due personificano l’uno l’ossessione dalla materialità e il capitalismo selvaggio, l’altro la spiritualità ortodossa (falsa) utilizzata allo scopo di abbindolare l’ignoranza popolare, le due colonne ideologiche su cui si sorreggono tutt’ora gli Stati Uniti d’America. Attraverso una magistrale introduzione veniamo accompagnati nella discesa verso gli inferi di Plainview, dove la virtuosistica regia di Anderson si concentra principalmente nei primissimi piani sugli sguardi intensi del suo memorabile protagonista, vero punto di forza che rende epica questa pellicola. Il regista asseconda il suo protagonista con la macchina da presa accompagnandolo con lunghe carrellate laterali, alternandole a stupefacenti movimenti di macchina e con l’uso di panoramiche che ci immergono in scenari desertici di atipica bellezza, dominati dalla polvere, dalle trivelle e dal nero petrolio, rese ancora più affascinanti dalla magnifica fotografia di Robert Elswit e scandite dalle musiche di Jonny Greenwood dei Radiohead.

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(a cura di Tommaso Parapini)

3 – Birdman, di Alejandro Gonzalez Iñárritu (2014)

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Ad aprire il podio il Birdman: il teatro che irrompe nel cinema, quel teatro che evade dalle sue mura ed entra nella vita reale, amalgamandosi con essa. Pirandello e le sue maschere prendono vita in quella filosofia che viene portata su schermo grazie ad un interminabile piano sequenza, che non permette mai agli attori di smettere di recitare. Tutti sono costantemente incanalati in un ruolo, anche quando sono da soli, anche quando smettono di recitare, hanno sempre una parte da interpretare. Una gabbia resa magnificamente da una regia perfetta e che non si concede mai un’errore. Non a caso Iñárritu ha dichiarato che il suo intento era proprio dare allo spettatore l’impressione di una realtà senza via di fuga, perché infondo è così che viviamo le nostre vite, senza poterne fare un montaggio. Pur non trattandosi davvero di un puro unico piano sequenza, Iñárritu ha comunque guidato i propri attori in scene lunghe diversi minuti e ha cavalcato l’onda trasferendo alcune caratteristiche proprie degli attori scelti nei suoi stessi personaggi, grazie anche al fatto che nel film stesso gli attori interpretano a loro volta degli attori. Pura e delicata metalessia. Notevole inoltre l’evoluzione registica mostrata dal regista messicano, che dopo il divorzio dallo sceneggiatore Arriaga è riuscito a fare quella metamorfosi coerente, nel proprio stile, che è prerogativa di ogni maturazione artistica.

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(a cura di Davide Roveda e Lapo Maranghi)