Oggi la Scimmia vuole proporvi qualcosa di diverso, una riflessione doppia su due film del passato usciti più o meno in contemporanea e che hanno riscosso successi e critiche più disparate in tutto il mondo. E allora oggi vi parliamo sia de La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, che de Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, per approfondire i loro protagonisti e spiegarvi perchè secondo noi sono indimenticabili.
Con La grande Bellezza, uscito nelle sale nel 2013, Paolo Sorrentino ci consegna il suo ritratto di una Roma che riecheggia della mondanità de La dolce vita e risponde a quella stereotipata di To Rome with Love di Allen, in sala pochi mesi prima, nel 2012, che si rivelò un flop:
La monumentalità di Roma entra sempre a contatto con i sentimenti delle persone.
Aveva detto Sorrentino; e ancora una volta è un italiano a dimostrarci di aver letto questa città millenaria, andando oltre la sua immagine da cartolina, scendendo nel degrado più alto dei ricchi salotti. Interessante è notare la presa di posizione di Carlo Verdone che all’uscita de La Grande Bellezza, apostrofava la Roma del regista americano come una città “che non esiste e non è mai esistita” e che con la partecipazione al film nostrano, ci tiene a sottolineare cosa c’è davvero tra le vie capitoline e nei cuori dei romani.
La Roma di Sorrentino non può essere liquidata come un pretenzioso tentativo di mostrare fasto e decadenza, né come la fastosa marcia della morte di una città e delle belle speranze: questa Roma è la vita, uno scenario desolante che solo gli uomini posso arricchire.
Le contraddizioni presenti sono insite nel nostro tempo, sono il nostro tempo: il cardinale che dà ricette piuttosto che consigli spirituali, la scrittrice che impazzisce per i salotti televisivi, la suora che ammicca al giovane prestante, la sedicente artista che non riesce neanche a spiegare cosa sia per lei una vibrazione, il vicino di casa mafioso. Immagini grottesche certo, non conosciute direttamente, ma certamente riconosciute.
Ogni cosa è così familiare che non importa il contesto in cui Sorrentino le situa: queste situazioni sono la metafora di quel marcio annidato negli uomini, dello squallore desolante dei nostri ideali, di una società non vuota, ma piena di nulla. Tutti “sileni a rovescio” che rivelano come ormai val più la maschera che la verità,più l’apparenza che la realtà, più l’effimero che l’eterno.
“E’ tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio ed il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo …”
Così sussurra il protagonista, Jep Gambardella, ormai giornalista, ma scrittore nell’animo, giunto giovane nella città eterna pieno di belle speranze e ora incastrato tra feste e lustrini. In questo rutilante spettacolo del nulla, gli unici personaggi che sembrano aver preservato una purezza nativa, sono quelli della Ferilli e di Verdone, vittime quasi del sistema; ma anche lo stesso Jep in definitiva. Chi è questi? È un artista depauperizzato della sua raison d’être, dissipato da quella mondanità che pure vorrebbe distruggere, ma con la forza ancora di cercare e lo spirito di conoscere.
Con La Grande Bellezza, il paragone con Fellini sorge spontaneo, senza il dubbio malizioso del “plagio”, ma più del tributo o del passaggio di testimone di un messaggio che deve essere ancora ripetuto, forse perché non ancora recepito.
“Giungla tiepida e tranquilla, dove ci si può nascondere bene.”
Così definiva la sua Roma Marcello Mastroianni, nel ruolo di Marcello Rubini ne La Dolce Vita, assorbito e annoiato anche lui, come Jep, dal quel vortice festoso che gli aveva fatto perdere se stesso:
Una volta avevo delle ambizioni…
Jep e Marcello, questi viaggiatori senza sosta attraverso mondi di cui pure conoscono i limiti, arrivano quasi a intersecarsi potendosi persino scambiare le battute. Presenti anche nel film di Sorrentino, le scene cariche di simbolismo che sono ormai il suo marchio di fabbrica; e anche per Fellini l’immagine cinematografica viene intesa come una sorta di varco sull’inconscio, cui abbandonarsi venendo attraversati da forze simboliche. Parallelamente anche Sorrentino ci regala squarci di sacro per poi catapultarci di nuovo a terra, nel profano più vero. Tragico e grottesco, sacro e profano, sono infatti coppie concettuali e visive che si legano e si sovrappongono di continuo in ambo i film.
Nel suo peregrinare, passando per l’esperienza dei sensi e poi quella religiosa, Jep si riscopre scrittore, dopo aver citato nel suo viaggio molti suoi maestri e trovando in ultimo il coraggio di metter mano al suo progetto più ambizioso e all’inizio rivelato con cinica rassegnazione:
Non c’è riuscito Flaubert a scrivere un romanzo sul niente…
Così Jep si deciderà a tentare, come ha tentato Sorrentino con un film sul niente (l’approccio anti narrativo non è da tutti).
Se la colonna portante de La Grande Bellezza è la sempre affascinante figura di Toni Servillo, che scorre e sfoglia le pagine della mondanità romana, fruendo di ogni cosa ma non partecipando mai davvero a nulla, quella del film di Baz Luhrmann è l’encomiabile, e oggi possiamo aggiungere, Premio Oscar, Leonardo DiCaprio.
Uscito anch’esso nel 2013, Il Grande Gatsby del regista di Moulin Rouge ha riproposto una versione odierna del romanzo di Scott Fitzgerald del 1925, che ne aveva già viste ben tre, di cui l’ultima nel 1974, venne scritta da Coppola.
Nel suo film il regista australiano anima come pochi altri una festa cinematografica, sulle note di un r’n’b contemporaneo che aspira a giocare il ruolo del jazz nell’epoca che racconta. Luhrmann eccede spesso, peccando a più riprese di un’eccessiva esplicitazione dei sentimenti in campo, e non trovando al contempo quei sentimenti in sordina nascosti tra le righe del romanzo. A soccorrerlo c’è però il suo attore protagonista.
Il Gatsby di Leonardo DiCaprio è il prototipo di un’umanità passionale, ardente, trasognata: un Prometeo bambino che ha scoperto l’amore e solo ad esso crede. Ennesima prova questa di un attore non più promettente, ma che ha raggiunto lo scopo: una recitazione convincente, commuovente, terribilmente umana.
Servillo e Di Caprio danno infatti un senso e un’originalità a due personaggi già diversamente portati sul grande schermo, ma senza mai far rimpiangere il passato, anzi facendocelo apprezzare di più:
“Perfino in quel pomeriggio dovevano esserci stati momenti in cui Daisy non era riuscita a stare all’altezza del sogno, non per sua colpa, ma a causa della vitalità colossale dell’illusione di lui che andava al di là di Daisy, di qualunque cosa. Gatsby vi si era gettato con passione creatrice, continuando ad accrescerla, ornandola di ogni piuma vivace che il vento gli sospingesse a portata di mano. Non c’è fuoco né gelo tale da sfidare ciò che un uomo può accumulare nel proprio cuore.”
E il romanzo di Fitzgerald non è mai parso tanto attuale.
Eroi della modernità, Jep Gambardella e Jay Gatsby (J. G. ritorna…) offrono corrispondenze e dicotomie intensi: se Jep vaga in cerca della sua ineffabile grande bellezza, come in un viaggio dantesco negli Inferi, Gatsby è un uomo che ha trovato, o almeno crede cecamente, la sua. Entrambi circondati dal nulla e consapevoli della vanità di quei mondi ruggenti e al contempo piangenti, uno sa di essere in cammino, l’altro si vede alla meta.
E’ comunque possibile riconoscersi in ambedue col medesimo trasporto: Jep, così apparentemente annoiato dalla vita, che pure cela il sognatore della sua gioventù, che malgrado i suoi 65 anni vaga; Gatsby con i suoi occhi speranzosi, vivi come nessuno mai, che guarda chiunque con quella fiducia con cui si vorrebbe essere sempre guardati (anche qui è difficile scindere Gatsby dal volto benevolo di Di Caprio), che vive per amare, che ama per vivere, che crede nella luce verde “nel futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Ieri ci è sfuggito, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo di più le braccia… e un bel mattino…”.
Uomini cui la realtà va stretta, che non si accontentano e vogliono compiere quel passo in più: uomini veramente umani. Si chiami grande bellezza o luce verde, Gatsby e Jep ci ricordano quanto sia fondamentale per gli uomini il cercare, avere speranza, credere in qualcosa al di là del tangibile, fuggire dal tutto e dal nulla, andare al di là, cercare il κόσμος nel κάος.
Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario.
(Jep cita Celine in Viaggio al termine della Notte)