C’è un antefatto curioso dietro a Cruising, il capolavoro misconosciuto di William Friedkin, un antefatto destabilizzante che sembra costituire un vero e proprio fil rouge all’interno della sua filmografia. E’ un legame inquietante e fortuito, infatti, quello che, come vedremo, lega due dei tanti film “maledetti” diretti dall’oramai 81enne regista di Chicago.
Siamo nel 1979 quando Friedkin, reduce dall’insuccesso commerciale di Pollice da scasso (1978) che seguiva a sua volta il colossale tonfo al botteghino de Il salario della paura (1977), si interessa al caso delle misteriose morti legate agli ambienti omosessuali di New York dell’epoca. Una mattina, il New York Daily News riporta la notizia dell’arresto di un certo Paul Bateson, accusato di alcuni degli omicidi e definito “il killer dei sacchi della spazzatura” per via del metodo con cui era solito liberarsi dei corpi fatti a pezzi. La notizia colpisce da vicino il regista, come egli stesso spiega nelle pagine della sua autobiografia, Il buio e la luce:
“Rimasi allibito quando vidi la sua foto: era l’assistente di radiologia al NYU Medical Center che aveva preparato Linda Blair per l’arteriogramma in L’esorcista.”
E’ così che l’interesse iniziale per queste macabre vicende di cronaca si trasforma in vera e propria ossessione, tanto da portare Friedkin alla pazza idea di utilizzare il romanzo di Gerald Walker, ispirato al resoconto di quei fatti, per il soggetto del suo nuovo lavoro.
La storia del “killer dei sacchi della spazzatura” è filtrata, per lo schermo, dallo sguardo alieno e allucinato di Al Pacino, l’interprete insofferente (numerose furono le dispute sul set col regista) dell’agente di polizia Steve Burns, mandato in incognito dal capitano Edelson (Paul Sorvino) come infiltrato negli ambienti collegati agli omicidi, i locali sadomaso del Lower West Side. Per l’agente Burns sarà una vorticosa catabasi, un incubo ad occhi aperti in cui rischierà di perdere, ancor prima della vita, la propria stessa identità.
A rimanere impresse, di questo sfortunato cult, sono proprio le sequenze all’interno dei locali, quelle in cui l’autore sprigiona al massimo il suo estro visivo in un tripudio orgiastico di corpi e di luci, organizzando la scenografia come sfondo per degli atipici tableaux vivants. Il fulcro del film è già tutto qui, nella più che mai sorprendente confluenza tra ricostruzione scrupolosa (il regista afferma di non essersi inventato nulla dei numerosi “giochi” erotici condotti dai disinibiti clienti nelle sale da ballo) e rappresentazione onirica. Il confine è spesso labile, come dimostra la scena dell’interrogatorio durante la quale fa irruzione un energumeno di colore in perizoma: “Era una tecnica usata dalla polizia dell’epoca” – spiega sempre Friedkin – “Più tardi, quando il sospetto diceva al giudice di essere stato picchiato da un nero grande e grosso, praticamente nudo e con un cappello da cowboy in testa, il giudice pensava che fosse una balla o una sua fantasia.”
Un’affascinantissima ambivalenza che si riflette continuamente nel corso di tutta la durata di quest’opus friedkiniano: se da un lato, infatti, la trasposizione delle vicende reali sullo schermo è frutto di un’attentissima documentazione con tanto di interviste e sopralluoghi (quasi come il personaggio di Pacino, Friedkin frequentò i medesimi posti le settimane precedenti alle riprese) e di una maniacale cura dei dettagli realistici (per dirne una, è un vero obitorio quello che si vede all’inizio), dall’altra, a travalicare i confini del thriller fino alla più estrema astrazione metafisica contribuiscono diversi fattori. In primis, oltre alle psichedeliche sequenze già citate, la geniale idea di mostrare gli artefici dei diversi omicidi come persone differenti e somiglianti al tempo stesso, confondendo i ruoli tra vittima e carnefice (ad esempio la vittima del primo omicidio e il carnefice del terzo sono interpretati dallo stesso attore) frantumando alla base ogni possibilità di lettura logica degli eventi per lo spettatore.
A ciò si aggiunge la discussa intuizione del regista in sede di montaggio, quella cioè, senza troppo svelare, di instillare nel finale un senso di ambiguità disarmante, arricchendo il film di ulteriori significati e possibili chiavi di lettura. Una scelta apparentemente avventata che però, in fin dei conti, non poteva essere più logica, soprattutto se analizzata all’interno del più ampio discorso della filmografia friedkiniana, costantemente attraversata dal tema della vulnerabilità dell’uomo di fronte agli agenti corruttivi del male.
Inutile dire della difficile storia produttiva di Cruising,osteggiato, ancor prima che uscisse in sala, dalle associazioni omosessuali dell’epoca, preoccupate per gli ipotetici danni che un film del genere avrebbe potuto causare all’immagine della loro comunità.
Salutato come l’ennesimo insuccesso di pubblico e critica, boicottato e tagliuzzato dalla censura alla sua uscita nei cinema nel 1980, Cruising conobbe una seconda giovinezza nei ’90, quando venne ampiamente riabilitato e rivalutato. Oggi però, soprattutto in Italia, non gode ancora della fama che gli spetta.
Un film che ancora adesso sa sconvolgere e turbare, e che, come solo le migliori opere d’arte sanno fare, riesce a creare un universo autonomo, regolato da leggi che sfuggono ad una comprensione razionale.
Il senso intrinseco della pellicola è forse racchiuso nello scambio di battute tra Friedkin e Bateson, quando il regista decise di fargli visita in carcere prima di iniziare le riprese:
Bateson:” Se confesso altri otto o nove omicidi, mi faranno ridurre la pena.”
Friedkin:” Perché?”
Bateson:” Così potranno dire di aver risolto tutti gli altri casi.”