CHE FINE HA FATTO BABY JANE?
di Robert Aldrich (1962, USA)
Dopo La carovana dei mormoni (che potete trovare qui) allontaniamoci per un po’ da quegli anni in cui gli studios esercitavano ancora, tutto sommato, con pieno vigore il loro ruolo egemone all’interno delle varie logiche di mercato. Avviciniamoci invece, solo per un attimo, agli anni critici della Hollywood classica.
Siamo nel 1962 e la macchina dei sogni sembra essersi inevitabilmente tramutata in fabbrica di incubi. L’aria che tira è quella di una totale ed estrema disillusione, di un’autoanalisi critica sui limiti di quelle ideologie e mitologie che il cinema americano stesso era riuscito a creare e a diffondere. E’ l’anno de L’uomo che uccise Liberty Valance, uno dei film che meglio hanno saputo rappresentare lo scarto insanabile tra mito e realtà, che è poi la frattura abissale attorno a cui ruota l’intera premessa narrativa della pellicola che ci apprestiamo a trattare.
Che fine ha fatto Baby Jane? è un’opera che già dal titolo si carica di quel senso di desolazione e di perdita tipico del periodo, e che già dall’incipit si propone come cinico smascheramento di un’apparenza illusoria.
Nel 1917 Baby Jane Hudson è un’enfant prodige del canto e della danza, un fenomeno mediatico alla Shirley Temple con tanto di bambole modellate e commercializzate a sua misura, ma è anche una bambina sin troppo consapevole della sua posizione, tanto dolce e aggraziata sul proscenio quanto arrogante e viziata dietro le quinte. La sorella Blanche vive invece all’ombra della sua fama, maltrattata da un padre che in famiglia ha dei riguardi solo per la sua gallina dalle uova d’oro.
Nel ’35 però la situazione è ben diversa e le fortune delle Hudson sembrano essersi ribaltate: mentre Blanche è oramai entrata nell’olimpo delle dive del cinema, Jane non è altro che un’attricetta senza talento e con problemi di alcolismo, mero scotto da pagare per le major che vogliono assicurarsi un contratto con la richiestissima sorella.
Un misterioso incidente (che di misterioso e di incidentale pare aver ben poco) costringe però le due ad un prematuro addio dalle scene.
Secondo balzo temporale: 1962 (che è un po’ come dire “giorni nostri”). Le Hudson convivono infelicemente, Blanche (Joan Crawford) costretta in sedia a rotelle a seguito di quella notte fatale e Jane (Bette Davis) alle prese coi suoi soliti problemi di attaccamento alla bottiglia. Il già difficile rapporto tra le due è destinato ad incrinarsi ulteriormente quando l’insofferenza e la pazzia dell’ex bambina prodigio tenderanno ad acutizzarsi esponenzialmente.
Preoccupante campanello d’allarme per l’inerme Blanche è il momento in cui, nel cuore della notte, dalla sua stanza al piano di sopra, ode con terrore la sorella cominciare ad esibirsi in uno dei pezzi che la resero celebre, I written a letter to daddy, in una delle scene più perturbanti dell’intera storia del cinema, culminante proprio nell’amara presa di coscienza, per Jane, del proprio decadimento fisico (e mentale): la sua immagine non corrisponde più a quella gradevole della bambola infiocchettata quanto a quella patetica e sgraziata della vecchia signora riflessa nello specchio; l’impossibile conciliazione tra mito (la bambola) e realtà (lo specchio) di cui si parlava all’inizio, insomma.
Ma siamo solo al preambolo di un’escalation di follia, di un gioco al gatto col topo tra due anziane donne che non si sopportano. Aldrich sfrutta al massimo la tanto chiacchierata antipatia tra le due note dive per tirar loro fuori delle interpretazioni memorabili (nella gara di bravura a vincere è però la Davis), spontanee espressioni di reciproca acredine alimentata dalla claustrofobica cornice dell’ambientazione in interni. Una tensione narrativa che si sviluppa nello scarto tra l’handicap fisico dell’inerme Blanche e quello psichico della sadica Jane, relitti viventi tanto dello show business e della sua logica utilitaristica quanto di loro stesse e delle loro pulsioni (auto)distruttive.
Il risultato è quello di un originalissimo ibrido tra il melodramma familiare e il thriller d’ispirazione gotica dove a prendere il sopravvento è spesso il secondo, grazie soprattutto al cupo bianco e nero di Ernest Haller.
Innumerevoli gli spunti registici: da una costruzione della suspance a montaggio alternato che ricorderà molto una sequenza di Misery non deve morire (1990) di Rob Reiner, ad un finale che sembra ammiccare, per analogia concettuale, all’ultima, indimenticabile, scena del capolavoro wilderiano Viale del tramonto (1950).
Perfetti anche i caratteristi, tra cui spicca Victor Buono nel ruolo di Edwin Flagg, l’obeso e squattrinato pianista col quale Jane tenterà di intraprendere una collaborazione artistica per un utopico ritorno sulle scene.
In fin dei conti, un film imprescindibile ed un fondamentale documento storico. Il sintomo inequivocabile della malattia terminale che porterà, di lì a poco, alla morte di Hollywood così come l’avevamo conosciuta.
Candidato a 5 premi Oscar, vinse solo per i migliori costumi.