In quell’intervallo temporale compreso tra l’inizio e la fine degli anni ’60 in cui il cinema americano compiva la sua fase di transizione dal monopolio produttivo dello Studio System all’indipendenza autoriale di una fiorente New Hollywood, vi era lo spazio per opere anomale, sintomatiche di una inevitabile rottura rispetto al passato.
Una di queste è certamente Senza un attimo di Tregua (Point blank) del 1967 per la regia dell’inglese John Boorman, opera seconda (ma la prima di produzione statunitense) di una fortunata carriera sviluppata tra Hollywood e la madre patria, celebre per film di culto quali Excalibur e Un tranquillo week-end di paura.
Il soggetto della pellicola non è dissimile da quello di molti altri film gangster incentrati sul tema della vendetta individuale. Un uomo, Walker (interpretato da un intenso Lee Marvin dal volto granitico eppure fortemente espressivo), rimasto fregato dal socio e dalla moglie in un colpo orchestrato nell’ex prigione di sicurezza nell’isola di Alcatraz e sopravvissuto ai colpi di pistola ricevuti a tradimento, è intenzionato a regolare i conti per riprendersi i 93.000 dollari che gli spettano.
L’apparente semplicità dello scheletro narrativo, composto da una serie di tappe ed obiettivi da eliminare per andare a trattare con la vetta di un’organizzazione criminale strutturata, come di consueto, a piramide, cela, in realtà, un discorso ben più ampio e suggestivo, l’acuta analisi di una crisi identitaria.
L’anomalia nell’impianto strutturale si manifesta sin da subito tramite un montaggio schizofrenico volto a condensare in una rapida sequela di flash back sovrapposti la risposta alla domanda che Walker si pone, colpito a tradimento dal complice Mal Reese in una delle celle della prigione (prigione di Alcatraz che, lo ricordiamo, essendo stata chiusa nel 1963, ha perso la sua funzione, non facendo altro che rafforzare scenograficamente il senso della sconfitta, di un ingabbiamento mentale prima che fisico): “Come sono arrivato qui?”.
Uno stream of consciousness nevrotico quello dell’incipit, che si riproporrà visivamente più volte nel corso del film, soprattutto nei momenti in cui è messo maggiormente in discussione l’oggetto dello sguardo del protagonista. Numerose sono infatti le sequenze in cui l’istanza narrativa pare suggerire, con giochi di raccordi su false soggettive, l’incapacità di Walker di discernere il passato dal presente, le visioni che ingombrano il suo inconscio da quelle realmente percepite dall’organo visivo (emblematiche in questo senso le scene in cui momenti di violenza in fieri ne richiamano altri simili e già vissuti e quelle in cui la portata emotiva di un bacio con la cognata si fa carico di associazioni di momenti analoghi tra Walker e la moglie, la moglie e Mal Reese, quest’ultimo e la cognata stessa).
La storia che parte immediatamente dopo i bellissimi titoli di testa (un mix di riprese e fotografie del decadente ex carcere in mezzo al mare, dove Walker fa da unica, possente e devastata al tempo stesso, figura umana) riguarderà, dunque, già la messa in atto della vendetta del nostro anti-eroe, elidendo la presumibilmente gravosa fuga a nuoto verso San Francisco ed alimentando di fatto la valenza mitologica di una vicenda, ma soprattutto di un personaggio, continuamente in bilico tra il tangibile e l’onirico tra l'”a fuoco” e il “fuori fuoco”: Walker, non a caso, non ha cognomi, né altri nomi col quale identificarlo (“anche sua moglie lo conosce solo così”, ci vien detto); i modi in cui riesce a eludere qualsiasi sorveglianza per arrivare ai propri obiettivi fanno di lui una presenza eterea, quasi immateriale; le pedine dell’organizzazione cui mira, curiosamente, non muoiono mai direttamente per mano sua, pur essendo sempre lui la causa scatenante degli omicidi/ suicidi accidentali (“io voglio solo i miei 93.00 dollari” non fa altro che asserire).
E’ allora una domanda a prender corpo, man mano che la vicenda va avanti: Walker è soggetto o mero oggetto? Artefice del suo destino o marionetta opportunamente sfruttata all’interno di un più ampio sistema di gerarchie? Boorman è abile nel suggerire, nel trasmettere mediante il non detto, nel lasciare aperte più strade interpretative allo spettatore. Un’indeterminatezza che non può che culminare nel cupio dissolvi, come in un sogno (o forse in un incubo?), nell’oscurità di una prigione-deja vu, senza più nulla da chiedere ad una società cinica e spietata di cui forse Walker non vuole più far parte.
Come Alcatraz, nel 1967, il cinema a découpage classico che aveva dominato l’industria negli USA sin dagli anni ‘30, non rappresentava altro che un sistema di massima sicurezza ormai inservibile, logoro e stantio. Film come questo lo dimostrarono al meglio, ma altri ebbero maggior fortuna. Un capolavoro dimenticato dai più troppo facilmente.