L’UOMO DAL BRACCIO D’ORO
di Otto Preminger (1955, USA)
Un ex galeotto nervoso e irrequieto, Frankie Machine detto “Droga”, entra nell’appartamento di uno spacciatore, si rimbocca la manica sinistra della camicia e si sfila la cravatta stingendosela all’altezza del gomito. Il padrone di casa prepara, nel mentre, ciò che occorre, siringa, cotton fioc e cucchiaio, e asserisce: “La scimmia non muore mai, Droga. E’ un mostro che non muore. Se te la togli di dosso si nasconde in un angolo e aspetta il suo turno.”
Al momento dell’iniezione la macchina da presa restringe il piano sul particolare degli occhi di Frankie, le cui pupille innaturalmente dilatate dalla necessità di una dose finiranno gradualmente per rimpicciolirsi fino a ridursi vistosamente pochi attimi più in là. Il tutto è giostrato abilmente grazie a un mix di carrellata in avanti e zoomata sporca (come se l’operatore avesse fatto fatica a tenere a fuoco) e ad una melodia jazz sincopata che qui raggiunge il suo ossessivo climax, trasportando lo spettatore in un vortice sinestetico senza precedenti.
Siamo al minuto 36 di un film del 1955, ed è forse la prima volta che ad Hollywood viene mostrata in maniera tanto realistica una scena di droga. E’ però nel corso di tutti i suoi 115 minuti che L’uomo dal braccio d’oro riesce nell’impresa di raffigurare in maniera incredibilmente realistica la storia di una dipendenza.
Il film comincia con l’uscita di prigione di Frankie, riabilitato e disintossicatosi nel corso degli anni passati in carcere. Tornato nel suo quartiere lotterà per abbandonare le vecchie tentazioni e le bische clandestine (è assai abile con le carte) e per entrare come batterista in un’orchestra. Le due donne della sua vita, la moglie Sophia costretta in sedia a rotelle (ma con qualcosa da nascondere) e l’amica Molly (Kim Novak che di lì a poco verrà resa immortale grazie al maestro Hitchcock e al suo La donna che visse due volte) si riveleranno rispettivamente un gravoso ostacolo ed un aiuto più che mai prezioso per lo sventurato Frankie.
Otto Preminger, regista austriaco naturalizzato statunitense, che già nel 1944 si era imposto all’attenzione del pubblico e della critica con una pellicola particolarissima come Vertigine, noir morboso e onirico, raggiunge qui uno dei vertici della propria carriera, coordinando in maniera impeccabile una serie di contingenze particolarmente favorevoli all’incredibile riuscita dell’opera.
Innanzitutto i titoli di testa, ideati dal geniale designer grafico Saul Bass, imprimono visivamente e come meglio non si potrebbe il tema principale del film: delle strisce, dritte e bianche come dosi di eroina, si incrociano tra le scritte per poi unirsi nella forma di un braccio, il braccio d’oro del titolo che è in egual misura vittima dei vizi e artefice della fortuna di Frankie Machine, l’arto che egli utilizza per bucarsi così come per mischiare le carte e battere le bacchette sulla batteria.
Sin dagli opening credits un contributo fondamentale lo dà la colonna sonora di Elmer Bernstein, uno dei primi e più fulgidi esempi di partitura jazz scritta appositamente per il cinema, un tema ossessivo e perturbante che non smetterà di risuonare nella testa dello spettatore sin oltre la visione stessa della pellicola.
Non si può poi non citare come punto di forza a sé stante la straordinaria interpretazione di Frank Sinatra. “The voice” dimostra qui delle capacità attoriali fuori dal comune, calandosi perfettamente nella parte di un uomo disperato, vittima di sé stesso e del destino, delle sue debolezze e della forza di chi le sfrutta. Una performance che trova il suo zenit nelle sofferte convulsioni e nelle pulsioni (auto)distruttive dell’astinenza. La candidatura all’oscar pare, a distanza di anni, un riconoscimento sin troppo esiguo.
Così come sin troppo esigua appare quella alla miglior scenografia: una Chicago ricostruita in studio, affollata e dal sapore cimiteriale al tempo stesso, in cui a farla da padrona sono monolocali scarsamente arredati o locali malfrequentati. L’altra faccia dell’american dream, insomma. I bassifondi grigi (più che in bianco e nero) da cui è estremamente difficile uscire, impietosamente fotografati dagli elegantissimi movimenti di macchina di Preminger.
E questo perché L’uomo dal braccio d’oro è anche un grido d’accusa contro una società inerme, incapace di reinserire adeguatamente i detenuti, di comprendere le circostanze e di attivarsi per risolvere problemi sociali che preferisce nascondere sotto il tappeto. Frankie di questo è consapevole, dunque sa che per salvarsi potrà contare solo sull’aiuto di chi gli vuole un po’ di bene, perché già chi gliene vuole troppo finirebbe per scaraventarlo con sé al suolo.