Si è inaugurato giovedì sera all’Unipol Auditorium di Bologna la tredicesima edizione di uno dei più interessanti festival cinematografici del panorama italiano, il Biografilm, che ogni anno travalica il genere documentaristico per raccontare le vite di uomini e donne straordinari.
Con la presenza in sala dell’eterea madrina del festival, Soko, ad aprire le danze in sala è stata l’opera prima di Stéphanie Di Giusto, La danseuse (Io danzerò), alla sua prima in Italia in lingua originale, in cui la cantante e attrice franco-polacca interpreta il ruolo della protagonista, Loïe Fuller.
Presentato in concorso al Settantesimo Festival di Cannes, il film della regista francese porta sugli schermi la vita di Mary-Louise Fuller, una delle artiste più influenti e innovative della danza moderna. Avvolta da metri di seta, accecata da luci elettriche a colori, Loïe Fuller, reinventava il suo corpo ad ogni spettacolo, creando la sua celebre e ipnotica “serpentine dance”. Divenuta presto l’emblema di una generazione, adorata da artisti ed evocati da poeti, Loïe fece di tutto per perfezionare la sua arte, arrivando a trascurare anche la propria salute.
La danseuse narra le origini del fiore Loïe dalle tenebre e delle peripezie e i travagli che la portarono in scena, soffermandosi a lungo sul suo rapporto tortuoso con Isadora Duncan (Lily-Rose Depp), altra ballerina considerata tra le più significative precorritrice della danza moderna.
Partita nel 1892 da un’America da far west alla morte del padre, una giovane Loïe tenta di affermarmi come attrice prima a New York, dove la mentalità dell’epoca non le permette di dar sfogo al suo estro, poi come ballerina a Parigi, la capitale delle avanguardie.
Ne risulta un film intimo ed elegante, dai toni freddi e scuri, illuminati solo dai colori artificiali della danza; un film che va a scovare sotto i pesanti strati di tessuti e dietro le luci dello spettacolo, cercando di entrare nella psiche di una donna e di un’artista.
Sebbene proclami un “based on a true story” e la volontà di riportare in auge la figura dell’artista, la Di Giusto si lascia molto andare nella narrazione, appesantendo il film con una durata forse eccessiva (108 Min) e ostentando, sin quasi lo sfinimento, i dolori del cuore e le afflizioni del corpo della ballerina. Benché la Fuller fosse apertamente omosessuale, ad esempio, questa non fece mai uno scandalo del suo orientamento e soprattutto non ebbe mai un’attrazione per la Duncan, con cui pare vi fu da subito una certa, reciproca, antipatia. Non è neppure vero che la sua opera sia ora quasi dimenticata, ricoprendo ancora oggi un ruolo di pioniera delle arti performative del Ventesimo secolo, un’influenza cruciale per artisti come Ruth St. Denis e Martha Graham. Il suo corpo danzante nel vorticoso tessuto colorato fu consacrato dagli iconici poster di Jules Cherét ed ispirò tra gli altri Henri de Toulouse-Lautrec, Rodin e i fratelli Lumiere, che trovarono in lei una musa.
Proprio l’identità sessuale della protagonista viene affrontata con una certa contraddizione e a tratti trascuratezza: il rapporto di Loïe Fuller con gli uomini che incontra sembra circondato dall’opportunismo del caso, più che da veri sentimenti, così come dalla grande tenacia che la contraddistingue. La parentesi con il ricco Conte Louise Dorsay (Gaspard Ulliel), l’aiuto decisivo per il lancio della carriera della Fuller, è priva di pathos. Più interessante risulta invece il rapporto della ballerina con l’assistente teatrale Gabrielle (Mélanie Thierry), ma la relazione non viene mai approfondita o sviluppata fino in fondo, preferendo invece le pene d’amore per i sentimenti non corrisposti verso la Duncan.
Sin dalla prima scena l’interpretazione di Soko, all’anagrafe Stéphanie Sokolinski, si dimostra una piacevole sorpresa e ben si percepisce una profonda compenetrazione con il personaggio. Con un certo orgoglio la stessa artista ha anticipato infatti la proiezione del film rivelando di aver riversato tanto di sè nel ruolo e di non aver voluto far uso di controfigure per le performance sul palco. Tali scene sono in effetti ben organizzate, riuscendo a catturare la magia delle fantastiche forme naturali di Loïe. Altrettanto non accade alla danza di Isadora Duncan, dove il corpo della Depp è stato sostituito da quello della ballerina Fanny Sage, sebbene la sua figura snella e snob, ben si sposino con il carattere della Duncan qui rappresentato.
La Di Giusto dedica dunque al personaggio della Loïe una biografia (molto) romanzata per esaltarne il suo ruolo simbolo di emancipazione e creatività, interessandosi alla corporeità dell’artista in maniera quasi ossessiva. Il film restituisce alla Fuller la sua energica forza cinetica, ma si sofferma troppo sulle sue gesta e soprattutto i suoi gesti, finendo col ripiegarsi su stesso, lavorando spesso per accumulo.
Sebbene a tratti ridondante, Io danzerò conserva notevoli momenti di coinvolgimento sonoro e visivo, grazie anche alle meravigliose musiche di Verdi e alle atmosfere cupe ed eteree della natura che accompagnano le ballerine.
Come le sue protagoniste, il film si muove e danza tra due diverse lingue, l’inglese e il francese, e per non perdere una parte importante dell’interpretazione di Soko, come degli altri attori, invitiamo ad apprezzarlo in lingua originale.
Vi consigliamo allora di vedere Io danzerò, nelle sale italiane dal 15 giugno, per riscoprire una pioniera ante litteram della danza contemporanea e apprezzare una storia toccante che invoca alla caparbietà e al sacrificio per raggiungere la piena espressione dell’io.