Durante le riprese, la violenza significa amore e armonia. Durante le riprese dei miei film, nessuno si è ferito gravemente. La cosa curiosa è che più l’amore è grande, più aumenta la violenza. Ultimamente ho il dubbio che proprio dall’amore nasca la violenza. In altre parole, sono la stessa cosa.
Questo è il pensiero di Takashi Miike riguardo alla violenza. Il regista giapponese, noto per il carattere estremamente splatter, violento, perverso e conturbante delle sue pellicole ha sicuramente una posizione piuttosto estrema e forse viziata da quelle che sono state in carriera le sue stesse scelte stilistiche, tuttavia sarebbe riduttivo e un tantino ipocrita liquidare la rappresentazione della violenza al cinema come una prerogativa di film di serie b, per le masse, da pizza e birra insomma. La violenza è nella natura umana sin dall’alba dei tempi e di riflesso la si può rintracciare in ogni aspetto della vita dell’uomo e di conseguenza anche nell’arte.
Una vera e propria estetizzazione della violenza si è resa protagonista anche nel cinema, in particolare sul finire del secolo scorso e al principiare dell’attuale. L’ultraviolenza era uno dei punti di forza dell’immortale opera kubrickiana Arancia Meccanica capace di shockare a tal punto la critica internazionale da essere gravato da numerosi divieti: si pensi che in Italia il film non fu proiettato in tv prima del 2007, 36 anni dopo la sua uscita. Il critico d’arte Achille Bonito Oliva si rese conto che ciò che Kubrick voleva comunicare col suo film era la pericolosità dell’opera stessa, si trattava in un certo senso di un autodenuncia riguardo l’estetizzazione della violenza.