BUONGIORNO, NOTTE
Di Marco Bellocchio (2003, Italia)
Oggi, Martedì 9 Maggio, sono passati esattamente 39 anni da uno dei giorni più tristemente importanti e folli del nostro dopoguerra, uno di quei giorni che fecero presa su praticamente tutto il popolo italiano, che sconvolsero l’opinione pubblica e che cambiarono drasticamente il corso della politica del nostro paese. 39 anni fa le Brigate Rosse rapirono e (successivamente) uccisero Aldo Moro, erano gli anni di piombo.
In prossimità di uno storico accordo tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, i brigatisti sequestrarono proprio il fautore e il maggior promotore di tale intesa, conosciuta come Compromesso storico. In seguito i due partiti si allontanarono nuovamente e le speranze di co-governare finirono per sempre.
Marco Bellocchio, uno dei pochi connazionali a fare ancora grande cinema, come altre volte nella sua carriera, si addentra con coraggio in un tema scomodo, scegliendo di raccontarlo da un punto di vista particolare e rischioso di cui parleremo dopo. Film italiani con soggetti riguardanti il terrorismo e gli anni di piombo, come è ormai noto (consiglio per un’analisi più accurata, l’approfondimento del grande storico del cinema nostrano Gian Piero Brunetta in Guida alla storia del Cinema italiano), ne sono stati prodotti pochissimi, forse proprio per la difficoltà nel trattare l’argomento col giusto tono, senza scadere nella retorica o nella propaganda. Oltre ad altri tre film su Aldo Moro, Il caso Moro di Giuseppe Ferrara (1986), La piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli (2003) e Aldo Moro – Il presidente di Gianluca Maria Tavarelli (2008), i pochi titoli degni di nota sono: San Babila ore 20: un delitto inutile di Carlo Lizzani (1976), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci (1981), Maledetti vi amerò (1980), La caduta degli angeli ribelli (1981) e Romanzo di una strage (2012), tutti di Marco Tullio Giordana, più altri film che toccano il tema più indirettamente, ma di cui se ne sente la pesantezza in ogni fotogramma, come alcuni polizieschi (conosciuti anche come poliziotteschi) o soprattutto come in uno dei canti del cigno della commedia all’italiana, Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli (1977), dove l’atmosfera è ormai talmente pesante da renderne impossibile qualsiasi divagazione comica e tutto ciò diviene grottesco e oppressivo.
Bellocchio, da sempre attratto da temi difficili, basti pensare a come tratta la borghesia in I pugni in tasca (1965), l’istituzione cattolica in L’ora di religione (2002) e in Sangue del mio sangue (2015) o l’eutanasia in Bella addormentata (2012), non si tira di certo indietro, realizzando un film che già dalla pre-produzione ha generato polemiche e discussioni e lo fa al suo solito modo, con coerenza, rigorosità ed una freschezza da far invidia a molti esordienti.
Sinossi:
Chiara (Maya Sansa), Ernesto (Pier Giorgio Bellocchio), Mariano (Luigi Lo Cascio) e Primo (Giovanni Calcagno), quattro brigatisti, rapiscono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro (Roberto Herlitzka), nascondendolo nell’appartamento segnato a Chiara. Proprio lei, costretta a indossare una maschera nella quotidianità per non creare sospetti, sarà sommersa dai dubbi sul modo di operare dei brigatisti.
Il regista piacentino sceglie di raccontare una storia di così vasta portata, racchiudendola praticamente tutta dentro quattro mura. Una scelta pronosticabile come azzardata, si rivelerà in realtà la forza del film. Bellocchio infatti sceglie di concentrarsi sulla quotidianità dei sequestratori, sulla loro apparente normalità. Li vediamo mentre cucinano, guardano la tv (che opprime e sopprime gli altri media) e conversano di fatti che non sono aderenti in modo diretto alla vicenda Moro. Al cineasta non interessa raccontare un fatto storico in modo oggettivo e calcolato (di cui tra l’altro si era già scritto e documentato in abbondanza), preferendo dare spazio all’immaginazione e alle sensazioni, al contrario del film di Ferrara per esempio. Esplicativa quanto lecita a riguardo è la scena finale.
Non mancano ovviamente le critiche velate alle istituzioni che sono completamente assenti e la loro unica presenza nel film è tramite la televisione. La loro non è solo un’assenza fisica, il partito e in generale tutte le forze politiche abbandonano Moro al suo destino rifiutandosi di trattare con i terroristi, difatti pur sforzandosi di scrivere le lettere (delle volte sotto pressione dei brigatisti) il presidente democristiano sembra già rassegnato in partenza. Moro è morto fin da subito, i colleghi di partito non gli riconoscono neanche la paternità delle lettere, la sentenza del processo fattogli dai quattro estremisti è segnata già dal principio ed è incontrovertibile.
La regia di Bellocchio è molto quadrata e con i primissimi piani e l’utilizzo di mascherini, riesce a trasportarci in una dimensione rarefatta e a comunicarci la claustrofobia di Moro nell’abitacolo e degli stessi brigatisti nascosti nell’appartamento. Interessanti anche le sequenze della protagonista mentre lavora, dove ogni inevitabile minimo accenno al caso genera in lei una pressione costante, facendole rischiare il tracollo emotivo, difatti Chiara (una bravissima Maya Sansa) rischia di farsi scoprire con le sue stesse mani. Proprio gli attori sono uno dei punti di forza del film, oltre alla Sansa si distinguono le prove attoriali di Roberto Herlitzka (diversissimo nell’interpretazione, ma vicino nei risultati all’ufficioso Moro di Gian Maria Volontè in Todo modo di Elio Petri) e di Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista e anello debole degli ultimi film di suo padre), macchiettistico invece Luigi Lo Cascio, che dovrebbe interpretare sotto mentite spoglie Mario Moretti (il dirigente più esperto delle Brigate Rosse), evidentemente poco a suo agio nella parte.
Convincente l’utilizzo della musica nelle diverse (ma non eccessive) disgressioni oniriche, in particolare risaltano due canzoni come Shine on you crazy diamond e The great gig in the sky dei Pink Floyd, inserite sempre al punto giusto e perfette per supportare le immagini, per attribuirgli quell’atmosfera da sogno ricercata da Bellocchio fin dall’inizio.
Da menzionare infine le dure polemiche del regista e di Rai cinema (che produce il film) verso la giuria (presieduta da Mario Monicelli) a seguito dell’assegnazione del leone d’oro come migliori film a Il passato di Andrej Petrovič Zvjagintsev piuttosto che a Buongiorno, notte (vincitore soltanto del premio per la sceneggiatura, scritta da Bellocchio stesso, che verrà successivamente premiato con il Leone d’oro alla carriera nel 2012 da Bernardo Bertolucci). La Rai addirittura minacciò la direzione di non iscrivere più al concorso del Festival di Venezia i successivi film prodotti.
Attualmente Bellocchio è impegnato nella pre-produzione di un film sul pentito Tommaso Buscetta, visto il tema caro al regista e gli ottimi esiti dei suoi recenti lavori (Fai bei sogni a mio avviso è stato il miglior film italiano del 2016) non possiamo che attenderlo con grandi aspettative.