“In ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh siete fortunati.”
Quando due anni fa Ewan McGregor annunciava il lancio della sua carriera da regista con una versione cinematografica della Pastorale Americana di Philip Roth, in molti già temevano che qualcosa di spiacevole sarebbe accaduto sia al capolavoro letterario americano che alla futura stima nei confronti di uno dei volti più piacevoli di Hollywood.
Ad oggi quel timore si è purtroppo rivelato fondato. Ewan ha capito male Philip ed ha continuato a sbagliare fino all’ultima scena. Certamente abbiamo ancora ripetuto la stessa lezione: un capolavoro letterario, al cinema, muore quasi sempre. McGregor dirige dietro e davanti la camera da presa un dramma tormentato ben distante dal romanzo vincitore del Pulitzer nel 1998. Il complesso affresco letterario di Roth, capolavoro della nostra epoca, era troppo grande per il ristretto spazio dello schermo in cui si è deciso di adattarlo. Perché certe storie non possono essere adattate, non posso essere totalmente viste, possono solo essere immaginate, comprese con le parole perfettamente dosate di uno scrittore. Alcuni drammi, quanto più sono grandi, tanto più schiacciano chi tenta di contenerli entro determinati schemi e necessità.
Questo è ciò che è accaduto all’attore scozzese, che ha azzardato fino ad affidare la sceneggiatura a un uomo della tv, John Romano (autore tra gli altri, di film come The Lincoln Lawyer, Prima ti Sposo Poi TiRovino e Come Un Uragano), ma anche alle proprie inesperti doti registiche. Certo, ed è in questo che sta anche l’arte del cinema, altri libri hanno trovato sul grande schermo la perfetta aderenza di sensazioni descritte nere su bianco, come riuscì a fare con il Fight Club di Chuck Palahniuk David Fincher, o anche con la saga di Harry Potter i vari registi che si seguirono. Roth ha avuto però una sorte cinematografica più infelice, laddove l’unico decente riadattamento risale a quello del 1969 di Goodbye Columbus mentre vari infruttuosi tentativi sono seguiti più recentemente, La Macchina Umana (2003), Indignation (2006) e The Humbling (2014). In questo contesto, la Pastorale Americana di McGregor può essere scusata forse proprio dall’innocenza della prima volta dell’attore, innocente come il suo personaggio, innocente fino alla colpevole passività. Tuttavia, anche la recitazione risulta presto un punto debole di Pastorale Americana.
Forse fraintendendo il messaggio di Roth, o temendolo troppo per affrontarlo, il neo regista si è imbattuto in una storia più grande di lui e la scelta del cast non lo ha aiutato: l’unico personaggio che dona una certa profondità e che è soggetto a cambiamento è quello di Jennifer Connelly (Dawn), mentre la performance di Dakota Fanning (Merry) risulta monotona e poco sentita, così come McGregor ricorda più il suo bel Edward Bloom dagli occhi blu di Big Fish, che il personaggio maestosamente creato da Roth.
Il suo Svedese, Seymour Levov, con sua moglie Dawn e la giovane Merry rappresentano la perfetta pastorale americana, la famiglia del Mulino Bianco che corre serena nei campi abbracciando la vita. Quando tale idillio viene spazzato via dall’innata rabbia cieca dell’America, l’elemento più perfetto, buono, Seymour, “uno che cerca sempre di fare le cose giuste”, continua alla ricerca del Mulino Bianco perduto. Non c’è qui introspezione, cambiamento, solo un padre amorevole, ferito, destinato a non capire.
Non aggiungendo nulla alla vicenda del romanzo, il regista perde dei buoni spunti di approfondimento nel film, come quando Seymour intuisce un desiderio sessuale della figlia nei suoi confronti, mancando totalmente un’occasione per analizzare il dramma che di lì a pochi anni si sarebbe scatenato.
Lo Svedese vive il dramma familiare, puramente intimo e chiuso, della perdita di una figlia, una sessantottina che cozza tragicamente con il buon padre e la bella madre, reginetta di bellezza del New Jersey. Ma se lo scrittore newyorkese rende la vicenda dei Levov l’eco di tumulti maggiori, di scala internazionale, di un paese che stava cambiando rapidamente, generando un avvincente susseguirsi di sensazioni, più che di eventi. McGregor è più interessato alla fattualità della storia, alla sua linearità, finendo con l’appiattirla e renderla persino poco sorprendente. “Aveva imparato la lezione peggiore che la vita possa insegnare: che non c’è un senso”, recita indelebile il romanzo: McGregor non ha voluto comprendere questa lezione ma ha voluto mettersi alla ricerca di un senso, non trovandolo.
Chiudendo con romanticismo frettoloso e dolente, il film altro non è che la storia di una sconfitta, la sconfitta di un uomo, un padre e un marito (e aggiungerei forse di un regista). Roth invece, ben distante da una bignamesca chiave di lettura, usa la vicenda personale dei Levov come riflesso per raccontare la fine di un’intera nazione.
Se ancora non lo avete fatto, leggere il libro, se lo conoscete già, rileggetelo ancora. Guardate comunque il film e apprezzatene la temeraria innocenza e la prodigiosa magia dell’immagine di Hollywood che tenta di afferrare le vette inaccessibili della parola umana.