Personal Shopper – Recensione

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Dopo “Sils Maria”, Olivier Assayas torna, con “Personal Shopper”, a non-dire e non-mostrare, lasciando spazio al tragico mistero dei fantasmi che affollano la mente di una diva spogliata.

Ancora una volta, il regista francese si appropria del corpo di Kristen Stewart sottraendolo al divismo e abbrutendolo nel ruolo dei non-visti (plurali), anonimi componenti di uno staff che sorregge la facciata di ogni star. Sorta di disfacimento della maschera attorica attraverso il personaggio dell’assistente, antonomasia del making-of, del processo costitutivo della finzione, in Assayas pare quasi possibile leggere la convergenza tra registi come Jodorowsky e Rossellini. Si tratta in sostanza del medesimo processo, il lavaggio del volto-icona: in Rossellini (si pensi a “Stromboli, Terra di Dio“) attraverso una Ingrid Bergman sferzata dal vento, col naso umido e un fazzolettaccio in testa; analogo gesto quello dello psicomago cileno: il rituale di pulizia del volto dell’attrice, l’avvio della ricerca di una nuova individuazione, il sé oltre il ruolo, che a maggior ragione si dimostra motore dell’azione scenica considerato il finale disvelamento del meccanismo finzionale. Allo stesso modo agisce Olivier Assayas in Personal Shopper.

personal shopper movie images kristen stewart

“Volevo Kirsten”, ha detto il regista francese presentando il film sul palco del Festival di Lucca, “non per il suo talento, né per la sua fama, ma per la sua persona”. Kristen come sineddoche del retro, dell’invisibile e dell’in-progress che si affianca a un Invisibile di più ampia portata, quello del gemello della personal shopper Maureen, morto per una malformazione cardiaca che affligge anche la sorella. La morte torna dunque ad affermare un ricorrente concetto assayasiano, quello del filmare insieme negativo e interrogativo, del prefisso “non” e delle domande costitutive, insolute e insieme strutturali.

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I luoghi si alternano con cesure falsamente non violente, lievi dissolvenze in nero che spezzano con forza la narrazione, separano gli spazi. Maureen raggiunge a bordo del suo scooter l’appartamento di Kyra, sua datrice di lavoro nonché vaga e onnipresente star (della moda? del cinema?), un mezzo di locomozione instabile e nervoso che collega e insieme segna attualissimi tratti d’angoscia sulle strade parigine. Il nero di queste dissolvenze ricorre fino in fondo, si trasforma in un bianco accecante: Aldilà o illuminazione, buco o vuoto su pellicola bruciata. Una pellicola bruciata, però, per intero perché non resta spazio per il vecchio cinema delle narrazioni e delle risposte e dunque dei vecchi supporti nel mondo del digitale e della corrispondenza di medium e messaggio. Come digitale è il supporto (dove il bianco non è che il vuoto di ciò che resta – la troppa luce lascia ciechi come si è ciechi al buio), in un mondo digitale di pellicola esaurita, la tecnologia non può che ricoprire un ruolo centrale. Se il concetto che regge il film è quello dell’attraverso, della sospensione tra le dimensioni, riesce difficile non considerare la centralità del concetto di medium, in bilico tra l’esoterismo e la tecnologia. Gli spiriti inafferrabili (spiriti che vomitano ectoplasmi, meta-fantasmi o fantasmi capaci di autogenerarsi) comunicano attraverso le nuvolette blu di un’applicazione di messaggistica istantanea sullo schermo di uno smartphone. Il telefono all’inizio di “Sils Maria” annunciava la morte, motrice delle dinamiche e degli spostamenti (tanto dei protagonisti nello spazio, quanto dei loro ruoli in ed extra scenici, dunque costitutivi d’identità) e lo stesso telefono torna, in “Personal Shopper”, a informare il genere e, insieme, a deformarlo. Quella di Assayas pare infatti un’opera esente dalle classificazioni, dove l’horror è decontestualizzato e il jumpscare è tradotto dall’elemento di genere tradizionale nello squillo di un iPhone, a tutti gli effetti capace di far sobbalzare gli spettatori in sala.

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La tecnologia metamorfizzata come estensione dell’uomo sembra da lui inseparabile nonostante la morte: il medium di comunicazione diventa medium esoterico, anonimo messaggero capace infine di coagulare l’angoscia dallo schermo cinematografico allo schermo del telefono. Assayas comunica attraverso gli schermi, sfoglia strati della realtà svelando l’esigenza e, a un tempo, la mancanza d’identità, che si traduce in una delle sequenze del film più dense di significato. Possesso in senso sessuale e sorta d’illusione del pieno (ancora) possesso di sé, ma nel ruolo di qualcun altro: io scelgo chi sono. Il meccanismo attuato è quello dei social media, della dipendenza del reale dal virtuale.

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Nell’identità virtuale è possibile far emergere il non immediato (il come mi vorrei del profilo social di ognuno): una mediazione che raggiunge l’Oltre, l’Aldilà, che trasforma il medium in social medium. Ma come si costituisce l’identità se ogni identità costituita è di per sé altrui, già presa? Questo è il dramma attraverso il quale viaggia Maureen. Maureen non può essere Kyra perché Kyra c’è già. E non è un caso che a suggerire il conflitto di identità sia l’ectoplasmatica nuvoletta materializzata sull’app di messaggistica. L’identità virtuale anonima che agisce per far assumere al destinatario della comunicazione un’identità materiale. E l’identità è assunta indossando l’abito della star che, non a caso, è una guaina che ci ricorda il latex di Irma Vep o le stringhe di Demonlover. L’assunzione è soffocante, costringe il sé in una direzione, ma è al tempo stesso qualcosa di irresistibilmente erotico. Qui più che mai emergono quelli che Assayas considera i suoi maestri, Carpenter e Cronenberg. E soprattutto quest’ultimo torna magistralmente attualizzato in un “Videodrome” contemporaneo.

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Videodrome nasce dalla pericolosa convergenza macLuhaniana tra mezzo e messaggio, l’influenza del medium sul contenuto comunicato. Ed ecco che l’identità anonima e virtuale, cessa di essere estensione dell’uomo e rende l’uomo estensione di sé, trascina l’assistente Maureen verso l’identità. Con Cronenberg torna il Burroughs di “Naked Lunch”, la storia “dell’uomo che insegnò al suo culo a parlare”, dove per organo desideroso di individuarsi e possedersi s’intende il media che decide di agire, che assume consistenza e diventa informante dell’identità, un’identità della quale Maureen e, per suo tramite, Kristen desidera riappropriarsi. Indossa la guaina destinata alla se stessa attrice, ingabbia l’assistente nella sua datrice di lavoro, in una scena autoerotica magistralmente orchestrata con le tanto perfette dissolvenze assayasiane. Maureen possiede se stessa e insieme il consumo dell’atto erotico presuppone una bilateralità, è l’assistente che consuma l’amplesso con la diva, dove la diva non è altro che il suo secondo sé. Meccanismo polanskiano di circolarità e molteplicità di letture, ma soprattutto dubbi ammissibili a maggior ragione se si considera che l’ultimo progetto del regista francese è realizzato a quattro mani proprio con Polanski. E, a ben guardare, l’atto individuale sessuale, non si ferma allo sdoppiamento (tra Trelkovsky e Simone Choule?), arrivando a sfiorare il menage a trois delle identità: c’è Maureen, c’è Kyra e c’è il gemello di Maureen, lo spirito che osserva, la presenza che accentua la perversità dell’atto e della pluralità dei sé. Un terzo che finisce per essere, forse, autorappresentazione del regista, la stessa macchina da presa che non mancava di indugiare attraverso lo sguardo della Binoche sulle natiche addormentate della giovane Kristen (ancora una volta assistente) nella casa sulle montagne di “Sils Maria”.

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kristen stewart in PERSONAL SHOPPER

Maureen si sposta, prova a raggiungere il suo ragazzo a Tel Aviv, ma i fantasmi la seguono ed è lì che affiora il punto di domanda che resterà tale, appeso allo spirito del dubbio: “Or it’s just me”?

Con “Personal Shopper”, Assayas si conferma dunque, perverso e perfetto indagatore della mente umana e delle molteplici declinazioni della soggettività, passando per grafiche corporee nette e de-erotizzate dal contesto, quello per eccellenza anti-erotico dell’asettica boutique o del guardaroba dove si forma l’identità, dove ogni trasformazione è possibile perché ancora in potenza.

Inaggirabile dunque la domanda se è nato prima l’uovo o la gallina, l’uomo o l’identità, come un’etichetta d’attribuzione di nomi. In tutto questo, il medium, la tavola ouija materializzata sullo schermo dell’iPhone (e poi, nello schermo cinematografico), anonima in quanto entità, eppure capace di controllare e definire l’essere e il reale. Assayas appare allora più che mai in linea con il suo secondo maestro, Carpenter, proponendoci uno sguardo sulle dinamiche di cui siamo soggetti solo illusoriamente non passivi. Dalla rete dell’internet alla guaina filmica che maschera il fuoricampo-scenico (poli opposti del filmante e del filmato), popolato da aspiranti-qualcosa senza volto e tuttavia alla costante ricerca di sé e dove ogni individuazione del sé finisce per essere nient’altro che soffocante autocostrizione di latex o rete-bustier.