Rillington Place: la recensione della miniserie con Tim Roth

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John Reginald Halliday Christie è stato un serial killer studiato da tutti i criminologi del mondo, data la sua personalità complessa e notevolmente squilibrata, ma più di ciò, a farne un caso di studio è stata la sua caratteristica principale, ovvero la “maschera” di apparente normalità che era solito indossare per vivere la sua vita da piccolo borghese britannico. Eppure, dietro a quei modi garbati, miti e comuni, si celava un uomo in grado addirittura di uccidere una bambina di appena un anno, oltre ad almeno altre sette vittime, tutte donne.

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L’insospettabilità è un caso classico che si ripropone spesso nei gialli e nei crimini reali, ma ogni volta che ci si ritrova di fronte ad un criminale di cui non si sarebbe mai detto della condotta illecita, ci si sconvolge sempre, poiché a queste cose non ci si abitua mai. Su questo assunto si basa la miniserie Rillington place proposta tutta d’un fiato da GialloTv domenica sera (9 aprile). Nelle tre puntate che compongono la serie si ricostruisce la personalità di Christie in maniera elegante, mai banale e senza ricorrere a facili scene di violenza, tutto è suggerito, niente esplicito, si plana sui fatti, per andare dritti al punto della questione: quando l’apparente normalità può essere smascherata per rivelare i mostri che si celano dietro?

Anche quando si arriva al punto, lo si fa con eleganza, abilità di scrittura e immagini potenti, poiché l’altra trappola in cui la serie sarebbe potuta cadere, oltre alla cruda esposizione dei fatti, era quella di spiattellare con poche sfaccettature la complessa e squilibrata personalità del killer. Invece, come accade per la storia, anche l’introspezione psicologica è suggerita, senza facili scorciatoie, con un tatto che è raro trovare in molte storie criminali, soprattutto quelle tratte da storie vere. Agghiacciante la scena appena accennata della masturbazione dinanzi ai trofei presi dalle vittime, una scena breve, che suggerisce in pochi secondi una vita di squilibri mentali, il punto è centrato molto di più che se fosse stato descritto con una scena esplicita e visivamente cruda.

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Lentamente, attraverso le tre puntate viene delineata la psicologia di Christie, si entra nel labirinto di una mente e se ne esce distrutti, poiché la storia è davvero allucinante. Il percorso viene valorizzato da un’interessantissima scelta di storyline, infatti ogni puntata viene raccontata da un punto di vista diverso. La prima è dedicata alla percezione della moglie di Christie, Ethel, interpretata da una bravissima Samantha Morton (Minority Report, The Libertine), che ritrovando il marito dopo ben 9 anni -si erano separati solo dopo quattro anni di matrimonio, e lei perse da subito le tracce del compagno- in un carcere per furto d’auto, non ci ripensa due volte a riprenderlo con sé, nella speranza di ritrovare un’armonia e una felicità che la sua vita aveva perso a causa del matrimonio e delle due guerre mondiali. Le speranze verranno pian piano distrutte dalle attività del marito, cadendo in una infelicità fatta di segreti e paure. Ethel era una donna passiva e devota al marito, talmente tanto da coprirne i loschi segreti, fino a quando i sensi di colpa la faranno cedere, per poi minacciare il marito ed essere uccisa dallo stesso per paura che denunci suoi delitti.

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La seconda puntata è forse la più potente a livello emotivo, essa viene raccontata attraverso gli occhi di Timothy Evans, un novello sposino, umile ed ignorante, trasferitosi nel palazzo dove abitano i Christie. La moglie di Timothy, Beryl, attira immediatamente l’attenzione dell’assassino, che con i suoi modi gentili e le sue bugie (tra cui una fantomatica carriera da dottore durante la Grande Guerra) ottiene la fiducia della coppia. Gli sposi avranno poi una bambina, Geraldine, ma sarà proprio allora che cominceranno i problemi tra la coppia, divisa da una depressione post parto di Beryl. In questa fragilità s’inserisce Christie che impone il proprio aiuto alla coppia, cercando, invece, di dividerla. L’occasione di agire arriverà quando la donna vorrà abortire il secondogenito trovando un netto rifiuto da parte del marito. Per portare la “pace”, Christie proporrà un aborto in casa fatto da lui stesso e a cui i due cedono. Proprio da qui nasce l’occasione per il killer di mettere appunto il suo piano, uccidere per poi creare una rete di sospetti nei confronti di Timothy. Machiavellicamente costruita, la trappola porterà l’ingenuo sposo ad impantanarsi nella vicenda, fino alla sua condanna alla pena di morte a causa dell’omicidio della figlia Geraldine, che in realtà verrà uccisa dallo stesso Christie dopo uno sbrigativo affidamento di uno spaventato Timothy. Questa è la puntata emotivamente più coinvolgente, poiché si assiste alla sistematica distruzione di un ingenuo innocente, che affronterà la pena  capitale per pura sfortuna, in un processo in cui, addirittura, lo stesso killer testimonierà contro di lui. Quando poi si scoprirà il vero colpevole, l’ingiusta sentenza scatenerà, anni dopo, un acceso dibattito in Inghilterra, che contribuirà all’abolizione della pena di morte nel 1965. Tutt’ora la famiglia Evans si batte per riabilitare la figura di Timothy, pur essendoci stata una assoluzione postuma nel ’66. Da menzionare la prova attoriale di Nico Mirallegro nei panni di Timothy, perfetto in tutta la puntata, capace di esprimere al meglio il passaggio da spensieratezza a terrore e rassegnazione.

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La terza ed ultima puntata, invece, è raccontata dal punto di vista di Reg, ossia proprio Christie, e qui arriviamo al cuore della miniserie: Tim Roth. L’attore inglese dona una performance eccezionale, riesce ad interpretare un ruolo non facile (Richard Attenborough, Christie nel film del ’71, ebbe molte difficoltà ad accettare il ruolo) con una naturalezza e una convinzione da portare a sospendere l’idea che si ha di lui come attore e di identificarlo esclusivamente come assassino. Roth, che nella realtà è un uomo molto espressivo, riesce a obliare il suo sguardo, spingendo lo spettatore a convincersi che dietro quegli occhi ci sia solo il vuoto, l’eterno freddo. Con la già accennata eleganza che caratterizza la serie, Roth riesce a portare senza esagerare una personalità complessa e strana, resa tale da un’infanzia con una madre iperprotettiva e da numerose sorelle che lo dominavano (qui, pur se nella miniserie non si dice, è la chiave della sua ossessione per le donne, resa ossessiva da un’impotenza che lo abbandonava solo con le prostitute). Inoltre, l’attore riesce a portare avanti tutte le altre caratteristiche del killer, come la spiccata intelligenza (QI 128), l’ira repressa, la debole salute, aggravata dalle ferite della prima guerra mondiale, e una sorta di personalità multipla che lo portò ad essere un poliziotto, un soldato, un infermiere, un tecnico, ed infine uno spietato assassino. Tale sconcertante personalità verrà portata egregiamente fino alla fine, risultando ancora più incisiva al momento dell’arresto e della condanna a morte (1953), ove si nota lo squilibrio mentale grazie prima al tentativo di dichiararsi incapace di intendere e di volere, poi con la negazione dell’omicidio della piccola Geraldine (unico omicidio negato, la mente perversa non accettava tale livello di perversione?) ed infine con l’accettazione, intrisa di paura, della propria fine. Non ci sono parole efficaci per poter descrivere al meglio questa prova attoriale, se non quelle del Mirror:“il John Christie interpretato da Tim Roth è la cosa più agghiacciante che si sia vista in tv da anni”. Semplice e vero.

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Oltre alle meravigliose performances di Roth, della Morton e di Mirallegro, la serie è caratterizzata da una messinscena perfetta, votata molto all’impatto visivo e alla resa dei dettagli. La ricostruzione della Londra di quegli anni (1938-1953) è minimalista ma efficace, aiutata da una fotografia bellissima, vera padrona della scansione del tempo, ove si passa dall’oscurità della Londra durante la seconda guerra mondiale alla grigia ma più luminosa Inghilterra vincitrice, non c’è bisogno di ricorrere ad intermezzi storici per capire gli anni che passano, basta la luce. Inoltre, la scenografia ha una cura dei dettagli maniacale, ove una mela in più su un davanzale o la presenza di una radio sul mobile fanno percepire il cambio di contesto temporale, reso ancora più facile dalla differenza di stile di vita che intercorrono in quindici anni, espediente usato talmente bene che l’indicazione grafica degli anni di riferimento sembrano quasi superflui, utili solo ad orientarsi tra i vari flashback. Infine, è da notare l’uso della colonna sonora e del missaggio che spesso rievoca il genere horror, facendo salire la tensione anche in scene apparentemente innocue, e ciò si nota soprattutto nella prima e terza puntata. Tale espediente viene sospeso solo una singola volta con la famosa canzone dell’epoca Whispering Grass, resa agghiacciante dal contesto e dal testo stesso che parla di verità da non rivelare e che accompagna, in maniera azzeccatissima, la scena dell’omicidio della moglie, ormai pronta a consegnare Christie alla polizia.

In conclusione Rillington place è una miniserie eccellente, che ha tutte le carte in regola per vincere qualche premio quest’anno. Se siete amanti del genere o appassionati di storie vere non potete assolutamente perderla, soprattutto per vedere un Tim Roth in una forma strepitosa.

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