La cura dal benessere – Recensione (No Spoiler)

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Non era forse particolarmente atteso, almeno a giudicare dai poco esaltanti riscontri al box office, il ritorno all’horror di un regista come Gore Verbinski che, con qualche merito, c’è da rimarcarlo, aveva contribuito al rilancio del genere nel 2002 col clamoroso successo di The ring (remake del Ringu di Hideo Nakata datato 1998). Va riconosciuta infatti, al cineasta americano di origini polacche, un’impronta ben definita nell’ottima confezione dei suoi prodotti e nell’adesione ai generi all’insegna dell’originalità e di una discreta cura formale. Noto al grande pubblico più che altro per la saga dei Pirati dei Caraibi, altro colpo grosso al botteghino, Verbinski è anche però la mente dietro a quello che è da reputarsi indubbiamente il suo miglior lavoro, un sottovalutatissimo (non dall’Academy, che gli tributò un meritato Oscar) gioiellino come Rango, stupefacente film d’animazione western, riflessione profonda sulla mitologia e sui suoi archetipi e contenitore ironico di citazioni irresistibili (dal Chinatown di Polanski al milleriano Mad Max passando, ovviamente, per Sergio Leone).

Vi è dunque da stupirsi se un film come La cura dal benessere abbia avuto una così scarsa considerazione. Anche in Italia l’incasso è stato deludente, considerando che Life – non oltrepassare il limite, uscito anch’esso il 23 marzo e rivolto tutto sommato ad uno stesso target, ha fruttato ad oggi più del doppio (poco più di 500 mila euro il primo, un milione e rotti il secondo). Le cause sono probabilmente da ricercarsi più nella durata, insolita per un horror, di ben due ore e mezza (paradossale però che poi il grande pubblico sia disposto a cuccarsi 3 ore di Batman vs Superman), e nell’assenza di un attore di forte richiamo (protagonista è il poco conosciuto Dane DeHaan, tuttavia perfetto per il ruolo e capace di un’ottima performance), che nella presenza, dietro la macchina da presa, di un regista che poteva considerarsi una garanzia per gli studios, fatta eccezione del poco fortunato Lone ranger. Non a caso, persino nelle frasi di lancio del trailer, viene fregiato dell’appellativo di “genio visionario”, per quanto tale nomea sembri oramai senza significato ed attribuibile a chiunque si sia cimentato, a prescindere dagli esiti, in pellicole dall’atmosfera vagamente fantasy.

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Ma andiamo con ordine. Una nenia inquietante, sulla falsa riga del tema di Rosemary’s baby, accompagna le immagini iniziali: lugubri ed imponenti grattacieli si stagliano nello skyline di Wall street, quando ormai il sole sta facendo capolino, ripresi da morbide e ravvicinate carrellate angolate dal basso, quasi a emulare la celebre soggettiva del morto del Vampyr di Dreyer. E infatti il morto, o meglio, morituro, questione di pochi minuti, fa la sua comparsa. E’ un importante broker ancora a lavoro nella sua postazione. Dai riquadri sugli scaffali nel suo studio capiamo che ha una famiglia: moglie, figli, affetti…eppure pare non aver altro interesse se non continuare a digitare cifre ed aggiungere dati ai suoi schemi informatici, a noi incomprensibili, nel doppio monitor del suo computer. Una lettera sulla scrivania, sigillata dal suggestivo stemma di due serpi avvolte su loro stesse, pare osservarlo: viene da una Spa di una località sperduta nelle Alpi svizzere. Là dove si trova Pembroke, amministratore delegato dell’azienda, che, come un colonnello Kurtz impazzito, non ha più intenzione di tornare al proprio lavoro, professandosi consapevole di quanto l’ossessione per il guadagno abbia avuto ripercussioni nocive sul proprio corpo, inquinandone di fatto il sistema immunitario. “Il capitale nasce grondante sangue e fango dalla testa ai piedi” direbbe Marx. Quasi a suffragare questa tesi, in un batter d’occhio, il nostro omino comincia ad avvertire dei dolori intercostali, si alza, va a prendersi qualcosa da bere, ma la scure della morte ormai pende su di lui. Si accascia a terra esanime in un desertico ufficio rigidamente disposto nella sua fredda divisione in settori, mentre l’acqua caduta dal dispenser scorre lenta e inesorabile, ed in silenzio spira. Un quadro appeso nei corridoi è l’obiettivo del successivo e conseguente vagare della macchina da presa; un’oggettiva irreale, come in Shining, che ci porta allo svelamento della sua identità: Morris, il venditore dell’anno.

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Nella bellezza di quest’ottimo incipit, autosufficiente e funzionale allo stesso tempo, sta il senso di tutto il percorso che lo spettatore si appresta ad affrontare. Un prologo che sa già esporre con la sola ed innegabile forza delle immagini il tema portante del film, la critica al capitalismo, all’ossessione dell’arrivismo sociale e la tensione ad una purezza, quella cristallina dell’acqua, destinata a sfuggirci.

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La logica utilitaristica e spietata che Verbinski e i suoi collaboratori vogliono condannare, sembra riflettersi, come una cartina di tornasole, sui meccanismi della trama. Morris altro non è, infatti, che una pedina, un pretesto per portare alla ribalta il vero protagonista: il giovane ed ambizioso Lockhart, al quale i capi delegheranno senza troppi indugi il compito, inizialmente affidato al broker deceduto, di andare a recuperare Pembroke in Svizzera. Il mcguffin è l’esigenza che l’amministratore delegato riluttante firmi delle scartoffie per una lucrosa fusione di aziende, la fregatura è che l’imberbe affarista si ritroverà bloccato nell’inquietante centro benessere in un clima sospeso tra l’orrorifico e il kafkiano. E della trama basti saper questo, poiché il resto è tutto da scoprire.

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A una prima occhiata i riferimenti dell’autore sembrano da ricondursi allo Shutter Island di Scorsese o a Sorrentino e il suo Youth: come nel primo un uomo sull’orlo della follia è alla ricerca di una verità nascosta all’interno di una struttura piena di segreti e di pazienti anomali, analogo al secondo l’ambientazione all’interno di un centro benessere e le inquadrature mono-centrate di corpi grotteschi e in decadenza (che probabilmente già nel lavoro del regista italiano nascondono più di qualche debito nei confronti di un certo Ulrich Seidl).

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Giudicandolo però nel suo complesso, il film può essere più facilmente ricollegabile, invece, all’ultima fatica di Guillermo Del Toro, Crimson Peak. Innanzitutto perché in ambedue le pellicole il fascino risiede più nella creazione del microcosmo, nella scelta delle inquadrature e nei movimenti di macchina che nella loro capacità di incutere paura ad uno spettatore comunque in tensione ed interessato al dipanarsi della trama; secondariamente, cosa ben più rilevante, perché entrambi i film, sebbene in diversa misura, richiamano fortemente ad un certo immaginario che nel film di Verbinski si farà sempre più preponderante col passare dei minuti: il gotico. Due omaggi, insomma, ad un’idea di cinema che non esiste più, fatta di castelli diroccati, antiche leggende, entità millenarie fantasmatiche o vampiresche (spesso incestuose) e vergini perseguitate. Un genere in cui in Italia eravamo maestri (si pensi a La maschera del demonio di Mario Bava e a Danza macabra di Antonio Margheriti) e che poteva vantare esempi virtuosi proprio in America coi film tratti da Poe targati Roger Corman, per non parlare del capolavoro insuperato di Robert Wise, Gli invasati, tutto giocato sul suggerimento e la non manifestazione dell’orrore che porta alla follia.

Sotto quest’aspetto, sommato ad una coerente e ben sviluppata intenzione tematica, all’innegabile forza visiva e alla perfetta gestione dei tempi, delle accelerazioni e delle pause del racconto, A cure for wellness è un film che funziona. Poco importa se la sceneggiatura ha qualche buco e se la fotografia appaia a volte un po’ troppo patinata (le inquadrature de corpi nudi sembrano totalmente impalpabili), perchè Verbinski, narrando la sua storia, è stato in grado di interpretare il presente offrendone un’ispirata allegoria e mantenendo uno sguardo attento e devoto al passato. Della sua Cura dal benessere, insomma, c’è da fidarsi.