In Sordina: Film – The world of us

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Il mondo dell’infanzia è sempre difficile da trattare. Avere le giuste dosi di leggerezza, lucidità interpretativa e onestà, infatti, in un film in cui la macchina da presa sarà sempre ad altezza bambino (bambina, in questo caso), è cosa assai ardua. Negli ultimi anni, in pochi sono riusciti meglio nell’impresa di questa promettentissima regista esordiente coreana, qui anche sceneggiatrice, Yoon Ga-eun.

Sun è una ragazzina come tante. Vive con una mamma comprensiva ed un fratellino più piccolo, Yoon, sempre intento a giocare alla lotta con l’amichetto di turno, frequenta il terzo anno di scuola ed ha ottimi voti. Nella magistrale scena introduttiva in cui il suo volto, infinitamente espressivo e carico di una malcelata sofferenza, è l’unico elemento “a fuoco” nel grigiore sbiadito di un gioco a squadre da cui è esclusa, ci accorgiamo subito che ha però un problema, ancor prima che il titolo del film compaia: le compagne di scuola che la irridono e la tengono fuori dalla loro cerchia. La situazione sembra andar meglio quando fa la conoscenza di una nuova alunna, Jia, con la quale riesce subito ad instaurare un rapporto speciale di amicizia e condivisione. L’idilliio tra le due sembra tuttavia destinato ad incrinarsi, vittima di un contesto sociale spietato come quello scolastico.

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In concorso alla 66esima edizione del festival di Berlino, passato in Italia al Far East di Udine nel 2016 e quest’anno all’11esima edizione dello YoungAbout festival di Bologna, questo sbalorditivo film trova la sua ragion d’essere nella cura maniacale che la regista ha riposto nella direzione delle piccole e talentuose attrici, le cui interpretazioni appaiono estremamente convincenti e naturalistiche. Una menzione speciale va fatta alla protagonista Choi Soo-in, capace, a soli 10 anni, di comunicare con lo sguardo e con le micro-espressioni facciali (e meglio di molti attori navigati) l’ampia gamma di emozioni che investono Sun nel corso della pellicola.

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Il marchio di fabbrica asiatico, quando si tratta della settima arte, si sa, è sempre o quasi garanzia di qualità. Non fa eccezione questo The world of us, portatore sano di un cinema camaleontico, capace di adattare il proprio sguardo a seconda dei soggetti e dei temi da focalizzare. Proprio in quest’ottica il percorso di Sun, dall’amicizia al tradimento subito, dalle vessazioni alle reazioni, dalla vendetta alla redenzione, è di volta in volta inquadrato dalla giusta angolazione. Lo spettatore è portato a trasformarsi e catapultarsi egli stesso in un corpo ed in un luogo altro: nei loci amoeni del germoglìo di un’amicizia, trasmessa con piccoli gesti assurti a simboli universali (il braccialetto regalato, l’intesa reciproca e naturale degli sguardi); nella quotidianità familiare a casa (i pasti in compagnia, le coccole della mamma); ma anche nella crudeltà dell’ambiente scolastico (i pettegolezzi e i giochi in cortile).

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Proprio la scuola diventa l’emblema della corruzione, quel posto, cioè, in cui la natura umana è destinata ad inquinarsi, sottostando a regole di interrelazione che portano al malessere come estrema conseguenza. Scuola intesa non come dialettica insegnanti-studenti, tant’è che gli adulti qui hanno un ruolo marginale, più che secondario, bensì come incontro/scontro di nuove entità sociali. E’ qui che il bambino impara quanto un’organizzazione (in questo caso una cerchia di amiche) non possa far altro che fondare la propria identità e la propria forza sull’esclusione e la denigrazione dell’altro. Un meccanismo perverso che è anche un infinito circolo vizioso, in cui possono cambiare gli addendi ma non il risultato (il ruolo di chi è tagliata fuori tocca, di volta in volta, sia a Sun che a Jia). Matematica conseguenza sembra essere l’universo fassbinderiano de La paura mangia l’anima: la ricorrenza, in due momenti molto diversi del film del mai abbastanza compianto cineasta tedesco, della stessa inquadratura in cui il le donne delle pulizie si raggruppano nella pausa pranzo su una rampa di scale, escludendo sempre una di loro, come programmatico obiettivo del loro biasimo.

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Metafora pregnante della situazione è il gioco in cortile, la palla avvelenata. Scelta non casuale, il cui funzionamento sembra rispecchiare lo svolgimento della trama: anche lì lo scopo è individuare un bersaglio, colpirlo e relegarlo in uno spazio circoscritto, una “prigione”; da lì, chi è “imprigionato”, per liberarsi non può far altro che colpire a sua volta. Allo stesso modo, chi è escluso dalla cerchia sociale, per tornare a farne parte, deve trovare un soggetto più vulnerabile che ne catalizzi l’odio.

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Forse però una speranza c’è ancora e la nostra umanità può esser ritrovata. Se ormai ogni possibilità di comunicazione con l’universo adulto è saltata, a dispensar saggezza può esser solo chi nello spirito e nel corpo è il più incontaminato e puro: il piccolo Yoon, a cui è affidata, sorprendente nella sua semplicità, la morale della favola (che vi invito a scoprire con la visione).

In definitiva, Ga Eun Yoon ha saputo coniugare sapientemente il cinema della quotidianità e delle piccole cose (quello a forte matrice giapponese che parte da Ozu per arrivare a Koreeda) insieme a quello disturbante e crudele (fatte le debite proporzioni, si intende) di connazionali come Park Chan-wook e Kim Ki-duk, lasciando un’impronta personale nella rappresentazione di un microcosmo coerente e più che mai tangibile. Un film da vedere ed un esordio clamoroso che speriamo possa trovar presto una distribuzione in Italia.

Il precedente articolo della rubrica In Sordina: Film, lo trovate qui