Che fosse un film atipico, questo Toni Erdmann (il titolo originale) di co-produzione tedesco-austriaca vincitore del premio Fipresci all’ultimo Festival di Cannes, trionfatore in tutti i premi principali agli scorsi European Film Award (miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura) e candidato al miglior film straniero agli Oscar di quest’anno (prima dato per favorito, poi sconfitto da Il cliente di Asghar Farhadi), era chiaro sin dalla durata, di ben 162 minuti. Ma le anomalie non si fermano, evidentemente, alle sue quasi tre ore di lunghezza.
Dietro la macchina da presa troviamo la tedesca Maren Ade, regista, sceneggiatrice e produttrice, vincitrice nel 2009 dell’Orso d’argento al Festival di Berlino per il suo secondo lavoro Alle anderen e qui al suo terzo lungometraggio per il cinema dopo un paio di cortometraggi.
La pellicola è incentrata sul difficile rapporto tra la quarantenne fredda e seriosa Ines (interpretata dall’ottima Sandra Huller), manager tagliatrice di teste trasferita a Bucarest per lavorare in un’importante agenzia di consulenza, e suo padre Winfried Conradi (Peter Simonischek in un ruolo che vale una carriera), la cui solitudine è insufficientemente alleviata dalla compagnia di un vecchio cane e dalle visite all’anziana madre. Egli, ex insegnante di musica oramai in pensione, è dedito a prendersi beffe degli altri con scherzi che fanno del travestimento la propria arma di forza. I problemi di incomprensione tra i due arrivano alle loro estreme conseguenza quando Winfried decide di far visita a Ines per alcuni giorni a Bucarest, cogliendola nel pieno delle tensioni lavorative e dei delicati rapporti con capi e colleghi. Non riuscendo a trovare altro rimedio al disagio, il padre decide di delegare il ripristino del legame familiare ad un nuovo personaggio, suo alter-ego munito di dentiera e parrucca: l’inarrestabile Toni Erdmann.
Se la trama lascia supporre una natura assimilabile a quella di tante commedie disimpegnate made in USA (tant’è che ne è stato già annunciato un remake con Jack Nicholson nel ruolo del padre, parte che in effetti sembra scritta su misura per lui), la struttura narrativa, totalmente libera da tutte le convenzioni del caso, fa sì che l’esperienza di visione, per lo spettatore, si trasformi, nel bene e nel male, in qualcosa di più unico che raro. A cominciare dalla non curanza della canonica struttura in tre atti, le cui durate risultano inconsuete e tra loro sproporzionatissime (il primo dura più di un’ora, l’ultimo una dozzina di minuti), il tono del film assume mille sfaccettature: dalla commedia al dramma, dall’intensità emotiva alla gag estemporanea, dal nudo (è proprio il caso di dirlo) e crudo al tenero e affettuoso, dal premeditato cattivo gusto alla sensibilità raffinata.
Lo stile di ripresa asciutto e privo di virtuosismi fa della camera a mano mai ferma sul cavalletto il perfetto strumento al servizio dell’indagine psicologica dei personaggi, colta attraverso le espressioni del viso in intensi primi piani o nei pedinamenti a precedere o a seguire di queste due figure così incerte e incomplete. Una regia che, da sola, nella direzione degli attori e nella scelta delle inquadrature, assolve il compito di trasmettere un vissuto e comunicarci un back-ground senza mostrarcelo con flash-back o spiegarcelo con scambi di battute chiarificatori.
A non venir mai meno, pur tra eccessi che sfiorano il grottesco, è il realismo di fondo, un’aderenza notevole al naturalismo dei gesti e delle reazioni che sembra collocarsi a metà strada tra la schiettezza del Dogma ’95 e la sincerità di un film di Cassavetes (il rapporto tra i due protagonisti può ricordare in un certo senso quello tra i due coniugi di A woman under the influence, dove è però l’uomo, Peter Falk, alle prese con un’esuberanza, in questo caso psichica, della donna, l’immortale Geena Rowlands). Esemplare in quest’ottica è l’assenza di colonna sonora, all’infuori dell’intensissima scena in cui Ines canta Greatest love of all di Whitney Houston, accompagnata al piano dal padre e del pezzo dei Cure, Plainsong, nei titoli di coda.
Nonostante a tratti la pellicola perda la sua forza dirompente, appesantita da alcuni momenti superflui – la regista ha dichiarato di non aver tagliato alcuna scena e di aver trasposto integralmente tutto ciò che era compreso nel copione, scelta comunque apprezzabile per la sua estrema coerenza – Vi presento Toni Erdmann rimane certamente tra i film più interessanti dell’anno, potentissimo nella sua capacità di rappresentare i rapporti umani, la nostra necessità impellente di indossare maschere per nascondere le nostre debolezze e di sopprimere la nostra natura per paura di risultare fuori luogo. In tal senso vi invito a scoprire in che modo, verso il finale, Maren Ade espliciterà il concetto del “mettersi a nudo”, in una delle scene più memorabili ed incisive che il cinema ci abbia regalato negli ultimi anni.” Non perdere la tua ironia” dice Toni/Winfried, e noi non possiamo dargli torto.