Cube, di Vincenzo Natali
La fantascienza di Duncan Jones e Vincenzo Natali: 4 film imperdibili
Quella che comanda ogni cosa, capisci? Il Pentagono, le grandi multinazionali, la polizia! Si fa un lavoretto insignificante, per esempio costruire un aggeggio in una città qualsiasi e in seguito si viene a sapere che quell’aggeggio in realtà è un componente essenziale di una macchina di morte! Avevo ragione io! E, credimi, è da una vita che lo sapevo! Te l’avevo detto, Quentin! Nessuno deve più dire che sono paranoica! Bisogna uscire di qui e far saltare in aria questa cosa!
Una grossa prigione fatta di cubi in successione e trappole mortali diventa il pretesto per un’analisi approfondita dei rapporti tra umani e società, con una sverniciata di filosofia Hobbesiana, qualche brivido horror, e del thrilling cervellotico. Se per Moon forse era necessaria qualche presentazione in più, non si può dire lo stesso di un film di culto come Cube. Vincenzo Natali compie il primo passo del concetto di disumanizzazione nelle scene iniziali, quando presenta dei personaggi terribilmente stereotipati: Leaven la timida studentessa di matematica, Quentin il poliziotto violento, Holloway la paranoica depressa, Worth l’apatico disilluso, Rennes l’egoista solitario e Kazan il ritardato (se vogliamo essere superficiali e gergali) o l’autistico (importante specificazione per le dinamiche della trama). Addirittura i nomi dei prigionieri, fanno tutti riferimento a prigioni realmente esistenti o esistite: Kazan è una prigione russa, Leavenworth si trova nel Kansas, Holloway è una prigione per donne in Inghilterra, Rennes si trova in Francia e San Quentin in California.
Pur mantenendo una propria stereotipizzazione, i personaggi di Natali seguono un’evoluzione di concerto, andando incontro ad un’esternalizzazione dei propri conflitti interiori, riversandoli sul prossimo. Tutto questo avviene nel contesto di una folle fuga dalla prigione in cui i protagonisti si ritrovano apparentemente senza il minimo motivo. Con una costruzione ricca di suspence e fascino fantascientifico alcuni dettagli vengono a galla e incrinano maggiormente il delicato equilibrio del gruppo di prigionieri. La prigione non lascia scampo e chi sbaglia paga, morendo sotto i colpi di trappole high-tech, sadicamente pensate da ignoti.
Celebre è il momento dell’esecuzione tramite la rete metallica tagliente che fa a cubetti il malcapitato (foto sopra), così come è stato citato in una delle scene iniziali del primo Resident Evil (foto sotto).
La permanenza dei prigionieri nel Cube diventa anche pretesto per pensieri complottistici sulla causa della loro reclusione, principalmente tramite i deliri (più che giustificati) di Holloway e di Worth, riportati brutalmente alla realtà dal pragmatismo preferito da Quentin. La sensazione è che in realtà individuare una ragione e trovare un perché a quello che sta succedendo, sia per i protagonisti che per lo spettatore, diventa quantomeno secondario, lasciando spazio ad un’interpretazione metaforica della realtà umana che vede l’individuo inserito in un contesto altamente estraniante, claustrofobico e indirizzato verso destini alternativamente cinici e mortali o di sopravvivenza, suggerendo neanche con troppa forza di individuare la cooperazione come panacea, perché poi in fin dei conti chi può davvero sentirsi libero e sereno in un mondo del genere, seppure tormentato dai suoi stessi simili, è un ritardato.
La visione offerta da Natali è altamente pessimista, è quella di un Gilliam (cui Natali ha dichiarato più volte di essersi ispirato) senza però la componente onirica che alleggerisce il peso e indora la pillola nei momenti più tetri.
Girato in un unico cubo di 4 metri, composto da pannelli smontabili, in 20 giorni, prevalentemente con hand-held camera e supportato dalla C.O.R.E. Digital Pictures che si occupò gratuitamente degli effetti speciali, Cube è un altro esempio di come, semicitando un altro illustre personaggio del cinema, le idee siano a prova di esplosione.
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