La fantascienza di Duncan Jones e Vincenzo Natali: 4 film imperdibili

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Moon, di Duncan Jones

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C’era un tempo in cui energia era una parolaccia e accendere la luce era una scelta sofferta. Città parzialmente oscurate, carenza di scorte alimentari e auto alimentate a benzina. Ma questo era il passato, dove siamo adesso? Come abbiamo reso il mondo un posto tanto migliore? Come siamo riusciti a far fiorire i deserti? Attualmente siamo i maggiori produttori di energia di fusione del mondo. L’energia del sole intrappolata nella roccia viene raccolta dalle nostre macchine sul lato oscuro della Luna. Oggi forniamo He3 (elio 3) a combustione pulita in quantità sufficiente a soddisfare il fabbisogno energetico di quasi il 70% del pianeta, chi l’avrebbe mai pensato? Tutta l’energia di cui avevamo bisogno proprio sopra le nostre teste. L’energia della Luna, l’energia del nostro futuro.

Con questo slogan si apre Moon, con l’unica scena del film che si svolge sulla Terra. Per il resto la narrazione è dislocata in un microambiente che è quello della miniera lunare Sarang, proprietà della Lunar Industries, una grande compagnia energetica. Sam Bell è l’unico operatore della base e questo fa di Sam Rockwell, suo interprete, praticamente l’unico attore del film. Per la verità va registrato che la voce di GERTY, l’aiutante robot assegnato alla miniera, è quella di Kevin Spacey, un contributo non da poco ai dialoghi del film. La storia del rapporto umano – i.a. non è certo nuova e ad aprire le danze nella letteratura fantascientifica ci aveva già pensato Asimov con il suo Multivac, il supercomputer che per primo infrange le tre leggi della robotica pensate dallo stesso Asimov, assumendo una coscienza propria e realizzando il sogno/incubo dello scienziato che si approccia alla creazione di un’intelligenza artificiale e dando adito a tutto un filone della robotica cui la letteratura di genere ha dedicato numerosi film come i recenti Wall-E, Her, Humandroid ed Ex-Machina, per citarne alcuni. Duncan Jones semina con maestria tanti piccoli strani dettagli nella prima parte del film, che suscitano la curiosità dello spettatore. Il contratto di Sam Bell con la Lunar Industries sta per scadere e con esso la sua permanenza sulla Luna, ma in breve avanza il dubbio che attorno a Sam stia succedendo qualcosa di minaccioso. Qui Duncan Jones inizia a giocare col suo pubblico, che non può non conoscere HAL9000 e GERTY sembra seguire in maniera identica il profilo comportamentale del supercomputer di Clarke e Kubrick, con grandi sorrisi e premure che inducono più sospetto che agiatezza.

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Il ribaltamento che poi offre Jones è figlio di una certa maestria nel gestire l’evolvere dei fatti, figlio di un’idea precisa che sta alla base del progetto Moon e che è quella di concentrarsi sulla disumanizzazione del protagonista. C’è una forte simbologia nel film, nel senso meno mistico del termine. Non è un caso che la Terra abbia risolto tutti i suoi problemi “a discapito” del suo piccolo satellite e non è un caso che tutto questo si svolga sulla “parte oscura” della Luna, la famosa Dark Side più volte citata dalla letteratura. La Lunar Industries si rivela rapidamente non essere altro che una bella e florida facciata della più abietta delle prigionie e sfruttamenti. L’idea della disumanizzazione prende corpo con perizia a partire dal momento in cui di fronte a Sam Bell compare un secondo Sam Bell ed è qui che il regista dialoga maggiormente con la psiche del suo spettatore, perché inscena un duello serrato tra la suggestione di totale follia del protagonista e qualcos’altro, di sfuggevole, che però appare da subito essere la vera risposta ai misteri di Moon. Ma il simbolismo del film non è solo tematico, è anche estetico, mettendo in scena una fantascienza vintage fatta di grossi pulsantoni luminosi e sequenze silenziose su paesaggi lunari sconfinati, che ricordano molto più la golden age della fantascienza tipica degli anni ’60 e ’70, che non la più recente, fatta di grandi esplosioni o spettacolari combattimenti.
Sam Rockwell interpreta una parte che gli è stata letteralmente cucita addosso dal regista, il quale ha pensato e adattato il personaggio all’attore stesso. Il risultato è notevole e quando fa la comparsa il doppio di Sam Bell, Rockwell si esalta diventando padrone dello schermo.

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Duncan Jones gira un film pulito, non artificioso e inetichettabile, perché sfugge i canoni della fantascienza e la esalta al tempo stesso, restituendole la purezza e forza proposte da 2001 e da Blade Runner. Come solo i grandi interpreti del genere sanno fare, usa la fantascienza e non scrive una trama al servizio di questa. Un film notevole: prodotto con 5 milioni di budget (che presenta comunque una meravigliosa scenografia e lunghe sequenze in CGI), girato in 33 giorni da un esordiente, interpretato da un solo attore, Moon è un vero e proprio piccolo capolavoro.

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