Come abbiamo già spiegato, il piano sequenza è un’inquadratura sostenuta e senza stacchi, atta a svolgere la funzione di scena.
Possiamo, però, introdurre un’altra questione relativa a questa specifica figura del linguaggio cinematografico.
Come abbiamo già spiegato, il piano sequenza è un’inquadratura sostenuta e senza stacchi, atta a svolgere la funzione di scena.
Possiamo, però, introdurre un’altra questione relativa a questa specifica figura del linguaggio cinematografico.
Per quanto riguarda l’immagine come paradigma percettivo (ovvero l’immagine-percezione di Gilles Deleuze, analizzata nel suo più famoso scritto “L’immagine-movimento”) possiamo interrogarci su due modulazioni: l’immagine oggettiva e quella soggettiva. Deleuze pone come oggettiva l’immagine che raffigura una cosa/insieme vista dal punto di vista di qualcuno che resta esterno a tale cosa/insieme; al contrario possiamo dire che l’immagine è soggettiva quando la macchina da presa coincide con l’occhio del protagonista o del soggetto ripreso: e lo spettatore, di conseguenza, vede ciò che vede il personaggio, nello stesso modo (Arca Russa, Alexander Sokurov). Si parla di soggettiva quando la macchina da presa “guarda” nel modo in cui guarda il protagonista. Vi è, inoltre, un sottogenere della Soggettiva: la Semi-soggettiva. Quando nell’inquadratura è visibile un personaggio (parzialmente e spesso posto di spalle) e la camera mostra il suo punto di vista rispettando la stessa distanza e la stessa direzione che lo separano dall’oggetto di sguardo. (Elephant, Gus Van Sant)
Partendo da questi basici concetti cinematografici il piano sequenza può subire una serie di metamorfosi a seconda del medium e per estensione delle scelte registiche. Abbiamo già menzionato (ed analizzato in un precedente articolo) il piano sequenza (di) Arca Russa che si configura, attraverso una forte teatralizzazione, in qualcosa che definiremmo “piano di memoria” e lo stesso potremmo dire del suddetto Elephant.
In questo articolo mi permetterò di analizzare il famoso “falso” piano sequenza di Panic Room (2002, David Fincher).
Meg (Jodie Foster) acquista una casa dotata di una stanza blindatissima, dove andrà a vivere con sua figlia Sarah. L’azione inizierà quando Meg si accorgerà, attraverso il sistema di telecamere di videosorveglianza, della presenza di tre rapinatori, incosci anch’essi della presenza di qualcuno all’interno della casa. Uno dei tre rapinatori è il nipote del precedente proprietario ormai deceduto, da cui è venuto a conoscenza di una cassaforte all’interno della stanza blindata. Ma Meg e Sarah si nasconderanno proprio lì..
Il piano in questione cercheremo di “de-costruirlo” per gradi, esattamente 10 segmenti che ci serviranno per una più dettagliata indagine.
Esattamente in questo passaggio vi è una giuntura nera inserita per raccordare, in post produzione, due inquadrature. La schermata nera, probabilmente, è stata introdotta successivamente per camuffare uno stacco che per sua natura è un tassema – un elemento che può scindere dal suo insieme: non si può, pertanto, considerare questo piano come un effettivo piano sequenza, ma solo classificarlo come una sua possibile simulazione.
Ripresa realizzata accorpando inquadrature reali con animazioni tridimensionali. La percezione del movimento fluido e continuo è una concatenazione di movimenti realizzati in diversi cicli. (Se si vedesse la scena in slow-motion potremmo scorgere diverse imperfezioni per quanto riguarda la velocità). Una tecnica simile è stata analizzata qui.
La peculiarità di questo piano è la coesione tra tecnologia analogica e tecnologia digitale, tra immagine e immaginario, tra movimento e impressione di movimento. La macchina da presa ci accompagna tra i diversi piani della casa (grazie ai dolly, dei carrelli progettati da tecnici cinematografici durante “L’età d’oro Hollywoodiana“), per poi proiettarci dentro una lampada accesa e all’interno delle serrature: una struttura che pone uno sguardo irreale ed innaturale all’interno di un circuito basato sul tradizionale ordinamento del cinema classico.