Dopo due Emmy e due Golden Globe lo show di USA Network tenta di riconfermarsi tra le migliori serie degli ultimi anni. L’accoppiata Rami Malek e Sam Esmail purtroppo non riesce ad incantare come aveva fatto per l’ottima seppur con qualche difetto, prima stagione. La delusione è molta per una narrazione che avrebbe potuto essere sviluppata maggiormente date le enormi potenzialità. In fin dei conti risulta, invece, non essere all’altezza delle aspettative, ma procediamo con calma.
Mr. Robot – la recensione della seconda stagione
TRAMA:
Nell’attesissima seconda stagione ritroviamo il protagonista Elliot nella casa di sua madre alle prese con la stesura di un diario. L’immaginario Mr Robot è ancora presente nel suo subconscio per tormentarlo; per questo, Elliot, cerca in ogni modo di controllarsi (notiamo subito l’importanza della tagline di questa stagione: Control is an illusion). Ogni suo tentativo di reprimere la sua parte nascosta è inutile, si svilupperà una sorta di braccio di ferro all’interno della sua mente senza un chiaro vincitore.
La F-Society, capitanata da Darlene, è presente e intende procedere attivamente con la rivoluzione: ogni rivendicazione è atta a destabilizzare la E-Corp, evidente rappresentazione del male.
Anche il percorso di Angela, Portia Doubleday, avrebbe dovuto essere maggiormente centrale: cercare di sconfiggere la E-Corp dall’interno. In realtà perde clamorosamente nel confronto con Rami Malek sotto l’aspetto recitativo (incredibili le sue performance nei dialoghi con Christian Slater). Il suo personaggio non riesce a coinvolgere anche a causa di una caratterizzazione non troppo approfondita.
Il punto debole è proprio questo: la trama fatica ad evolvere, per tutta la prima parte di stagione l’argomento principale è il dualismo Elliot/Mr. Robot; per quanto sviscerato e sviluppato molto bene risulta essere ripetitivo e noioso. Il primo vero colpo di scena (solo a metà stagione) poteva essere una svolta nel racconto: senza spoilerare capiremo che l’autocontrollo tanto era caro a Elliot e importante finora, in realtà è solo una finzione di Mr. Robot.
Sono sterili e inutili le vicende riguardanti l’FBI con l’agente Dominique ‘Dom’ Dipierro e la Dark Army con White Rose (il primo ministro cinese che ama vestirsi e truccarsi da donna). Esse risultano, anzi, un riempitivo per arrivare in fretta alla fine dell’episodio. Il personaggio di Joanna (la bellissima Stephanie Corneliussen), perde di utilità a livello narrativo e non riesce a sopperire all’assenza del marito.
Il personaggio più atteso, Tyrell, è presentato colpevolmente in ritardo. Era pilastro portante nella prima stagione ma in questa non sortisce l’effetto sperato. Il suo rapporto con Elliot non è credibile data la scomparsa del personaggio per quasi tutta la stagione. La conclusione è ancora peggiore con un plot twist per nulla credibile.
ASPETTO TECNICO:
L’uso di regia e fotografia è impeccabile come per la prima stagione. Tecnicamente rimane un prodotto di altissimo livello anche se lo storytelling è al di sotto delle aspettative.
I cambi di regia e di stile sono molto amalgamati, si passa dallo Spy Movie al Thriller alla Sitcom anni 80 con dei cambi di musiche, colore e inquadrature che sono marcate e ben definite ma fluide e omogenee tra di loro. Intelligente è la tecnica di adoperare colori molto chiari e puliti e in generale una fotografia limpida per rappresentare, in contrapposizione, i più torbidi accordi dell’alta finanza, dove vengono decise le sorti del mondo da pochi potenti.
Quando Elliot rompe la quarta parete e parla con lo spettatore è geniale, siamo paragonati in tutti i sensi a Mr. Robot. L’atmosfera si fa pesante quando lo spettatore si accorge che nella mente del protagonista, oltre a Elliot e Mr. Robot c’è anche lui stesso. Anche noi siamo parte di Elliot e, come lui, non sappiamo i pensieri e Mr. Robot quando non siamo coscienti.
CONCLUSIONE:
Al termine dell’ultimo episodio rimane l’amaro in bocca, in generale si è cercato di aprire nuovi interrogativi invece di concludere i cicli narrativi già iniziati. Così facendo invece di accrescere la curiosità e il coinvolgimento, il risultato è quello di rendere il soggetto poco attraente per lo spettatore. Il filone anarchico e rivoluzionario anticapitalista con il quale la serie si era presentata è stato sostituito dalla patologia di Elliot e quello che avviene all’interno della sua mente, un macguffin che non porta a nulla ma annoia e distoglie l’attenzione. La delusione è ancora più evidente perché la serie aveva un potenziale enorme che non è stato sfruttato, gli eventi sono scollegati tra loro e si rivelano un espediente valido unicamente per la conclusione del singolo episodio e non per la visione completa del prodotto.