Attenberg è un bel film di formazione, limpido e arricchito solo dalla schiettezza dei luoghi. Il frame di apertura è buffo, strano, con l’intreccio scomodo di lingue tra amiche che fanno le prove, i due profili contro un muro bianco. Poi la variazione dei toni: l’hotel, il bar deserto, il rumore del mare alla fine dell’inverno, le spiagge vuote e il cielo sempre grigio, dove il romanticismo letterario e sublime della natura è preso in giro di continuo dai personaggi, antieroici e spesati, ma simpatici.
Le vicende sono scandite da stranianti siparietti con le due amiche che si muovono in un non-luogo (stereotipicamente greco con casette bianche e cani randagi), cantando o mimando versi di animali: un’aggiunta di senso, che (in effetti con una certa ridondanza) spiega un significato già chiaro (l’uomo/animale, la scoperta imbranata del sesso), che emerge dal parallelo con i documentari del professor “Attenberg”.
Per il resto la storia procede bene da sé, con una drammaticità non ostentata. Sia il rapporto padre-figlia, che l’amicizia tra Marina e Bella appaiono autentici, fuori dal mito. Marina guarda il mondo con diffidenza infantile, analizza tutto con una razionalità buffa e logorroica, finchè conosce “lo straniero” (Lanthimos) e cede alla banalità delle emozioni e dell’istinto.
Per il resto la storia procede bene da sé, con una drammaticità non ostentata. Sia il rapporto padre-figlia, che l’amicizia tra Marina e Bella appaiono autentici, fuori dal mito. Marina guarda il mondo con diffidenza infantile, analizza tutto con una razionalità buffa e logorroica, finchè conosce “lo straniero” (Lanthimos) e cede alla banalità delle emozioni e dell’istinto.
Ma il suo atteggiamento subisce il cambiamento decisivo soprattutto quando si rende conto che è il momento di crescere, perché suo padre sta morendo. Ecco che tutto ciò che si perde nei grotteschi siparietti è recuperato dalla bellezza dolorosa del percorso verso la morte del genitore, che si rivela oltre che perdita, obbligata assunzione di responsabilità. La crescita è improvvisa e improrogabile quando bisogna scegliere sul catalogo la bara per un padre ateo, di fronte a un agente di pompe funebri ottuso e cristiano (e che non conosce il be-bop).
La Tsangari riesce così a mostrare il percorso (anche filosofico) che porta l’uomo a scoprire la propria naturale precarietà, attraverso la costante analogia con le piante e i gorilla (i documentari del prof “Attenberg” in tv, le inquadrature sulle piante). In una sequenza tutta giocata sul dettaglio, Marina taglia una pianta di aloe, la apre e la macchina da presa indugia sulla pianta aperta in due e sul liquido appiccicoso che cola nel barattolo. Marina in quella pianta vede se stessa, ma lo stacco successivo crea uno slittamento di senso: Marina in ospedale, seduta al capezzale del padre, che gli spalma sulla mano lo stesso balsamo di aloe, ammorbidisce la pelle seccata dalle terapie. Il balsamo spalmato sulla mano smette di essere allusivo e diventa il gesto d’amore semplice di una figlia verso un padre. Questo raccordo dice più di tutti i siparietti messi insieme, fa capire con abili cenni visivi che solo attraverso l’accettazione della sessualità Marina può crescere, e accompagnare il padre verso la fine, smettendo di essere una bambina e accettando se stessa, in quanto donna.
Molto bella la sequenza delle due amiche che sputano fuori dalla finestra, sputano sul mondo (perché ognuna di loro ha le sue difficoltà a farsi accettare), poi uno stacco e il fuoco si sposta sul vetro della finestra, improvvisamente coperto di pioggia, come se il mondo rispondesse coi suoi sputi, il mondo che ti sputa addosso.