Il film è una delicata esplosione di colori, impreziosito dall’introduzione degli origami che si compongono mangicamente al suono della chitarra di Kubo. Un piacere per l’occhio e al tempo stesso geniale trovata narrativa che sosituisce i flash back rendendo la pellicola più fluida e allegra.
Kubo è un bambino sfortunato.
Appena nato il nonno e le zie materne, abitanti dei cieli, gli hanno portato via un occhio e ucciso il padre, il valoroso samurai Hanzo (come insegna il saggio Quentin, impossibile chiamarsi Hanzo e non essere un eroe samurai). La madre rimane gravemente ferita nella fuga dalla perfida famiglia e, rifugiatasi in una grotta col piccolo Kubo, passa le giornate in un’apatia rotta da brevi lampi di memoria dove ricorda al figlio i poteri ereditati dal nonno e gli ricorda di non rimanere mai fuori quando cala la notte in quanto le zie sono a caccia dell’altro suo occhio. Kubo è un fenomenale cantastorie, ogni giorno si reca al villaggio e intrattiene i passanti con iperbolici racconti di Samurai che combattono draghi e polli sputafuoco messi in scena da figurine origami. Un giorno, trattenutosi oltre il calar del sole per partecipare ad un rituale evocativo e cercare di stabilire un contatto con il padre, Kubo viene scovato dalle gelide zie assetate di vendetta. A protezione del bambino interviene la madre che dona le ali al piccolo e si sacrifica per bloccare le sorelle. Kubo si sveglia nel gelo in compagnia di una severissima scimmia parlante che ha la missione di proteggerlo e accompagnarlo alla ricerca dei tre componenti dell’armatura dorata, unica in grado di fermare il malefico parentado. Sul loro cammino incontreranno un bizzarro scarafaggio samurai che non ricorda niente tranne di aver servito Hanzo, il padre di Kubo. Da qui un avvincente viaggio (che inizia con una citazione al Pinocchio di Walt Disney) porterà Kubo ad affrontare i propri demoni e scegliere la retta via.