“Il seme della follia” – L’incubo del solitario di Hollywood

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Howard Phillips Lovecraft è un autore letterario che, come Poe, ha nutrito da sempre il cinema con i suoi incubi, visioni e mostri ancestrali. Ma, a differenza del suo collega, le visioni di Lovecraft, intricate, oscure e deliranti, sono difficilissime da trasporre al cinema senza tradirne, in parte, lo spirito con cui sono state scritte. Un incubo senza fine dove prendono forma i più terribili mostri e allucinazioni. Fra queste trasposizioni, le più riuscite sono i gradevolissimi b-movies firmati da Stuart Gordon e Brian Yuzna. Domanda interessante: è possibile trarre un film lovecraftiano nello spirito ma senza prendere come ispirazione nessuna delle opere del Solitario di Providence?

John Carpenter, che questo 16 gennaio ha compiuto 69 anni, ci è riuscito con Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1993). Questo film, è uno dei più belli e sottovalutati della sua produzione. All’uscita fu un sonoro flop che obbligò Carpenter, per rientrare nei costi, a girare Il villaggio dei dannati (Village of the Damned, 1995), remake dell’omonimo film del 1960 ma che, a differenza de La Cosa (The Thing, 1982), è realizzato con mestiere ma senza inventiva.

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Ma che cos’è Il seme della follia? È la ricerca di un luogo dove ogni orrore è visibile, possibile, ripetibile. La ricerca dello «scrittore più letto del secolo», Sutter Cane (Jurgen Pronchow) da parte dell’ agente assicurativo John Trent (Sam Neill) è solo un pretesto. Le tracce lo condurranno fino a Hobb’s End, sperduta cittadina del New Hampshire tanto descritta nei libri dell’autore, ma che non figura sulle carte geografiche. Qualcosa di inquietante e terribile comincia a perseguitare John; quello che, inizialmente, sembrava una truffa ben architettata, si rivela un incubo sconvolgente, nella quale la realtà romanzesca si fa carne, la pagina dell’esistenza si strappa. Ciò obbligherà il protagonista a ripetere all’infinito una fuga impossibile, che lo porterà all’annientamento. E alla fine dell’umanità stessa, in una metafora della decostruzione dell’American Dream.

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Come nella migliore narrativa lovecraftiana l’orrore è narrato come un lungo flusso di coscienza, nella quale vengono rimestate, in un solo calderone, realtà e finzione. Viene fatto utilizzando il metodo del cinema di ripetere, di rallentare sulla bobina del montatore, mediante la sintesi del singolo fotogramma che assume un ruolo considerevole: John Trent, si trova in un cinema dove proiettano In the Mouth of the Darkness. Altro non è che l’esatta riproposizione della sua storia (ovvero il film che ha visto lo spettatore), che provoca nel protagonista una esplosione di ilarità incontenibile.

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L’unica via di scampo per fuggire dalla follia è nel cinema, che ripropone la realtà, la ripete in maniera grottesca. Ed è forse attraverso le visioni che è possibile affrontare al meglio il mondo che ci circonda. Forse è questo che ha voluto dire Lovecraf coi suoi scritti e John Carpenter con questo film, un film definitivo nel descrivere una poetica. Un capolavoro assoluto che ci ha regalato.